Seconda guerra mondiale. Sul fronte russo. Il terzino, da volontario, e il giornalista, per punizione, “uno spintone inflitto a un professore della seconda liceo”. Il terzino, fascista, e il giornalista, comunista “duro e puro”. Il terzino, del 1906, piemontese anzi casalasco di Vignale Monferrato, e il giornalista, del 1922, lombardo anzi brianzolo di Monza. Il terzino, che nel calcio avrebbe continuato ma come allenatore, e il giornalista, che avrebbe cominciato a scrivere soprattutto di ciclismo e pugilato, ma anche di boxe e cavalli. Il terzino e il giornalista, che rischiarono di incrociarsi “il giorno che una cigolante tradotta – il racconto è quello del giornalista – ci sbarcò in Russia, per affrontare la campagna più folle che si potesse immaginare, venimmo a sapere che, alle spalle del fronte, allora in movimento verso est, c’era un italiano che giocava a calcio, con i gerarchi sempre, che aveva nome Eraldo Monzeglio”. Il terzino nelle retrovie, come sul campo da calcio, e il giornalista in prima linea, com’era il giornalismo, anche quello sportivo, andare vedere scrivere, allora.
Vite parallele, quelle che emergono in “Il terzino e il Duce” di Alessandro Fulloni (Solferino, 336 pagine, 20 euro). Eraldo Monzeglio, il terzino del Casale, Bologna e Roma, e della Nazionale, campione del mondo nel 1934 e 1938; e Mario Fossati, il giornalista sportivo, “La Gazzetta dello Sport”, “Il Giorno”, e “la Repubblica”, “che poi avrebbe trasformato in romanzi le sue cronache al Giro e al Tour”. Il romanzo su Monzeglio si concentra su Monzeglio e la sua amicizia con i figli di Benito Mussolini fino a diventare maestro di tennis non solo dei figli ma anche del Duce (nonché il loro “istruttore ginnico ufficiale” e poi “addetto alla segreteria particolare del Duce con incarichi speciali”). Anche Fossati fu testimone della storia di Monzeglio: “Era elegantissimo. Di un’eleganza non voluta, perché l’eleganza è come il folclore, che se è voluto infastidisce. Lo stile di Monzeglio era naturale. Le ali dell’Inter, le punte, non già Meazza, indugiavano nell’egocentrismo del dribbling: e Monzeglio interveniva. Ogni suo intervento non sembrava un atto casuale ma il risultato di un pensiero, di una riflessione: un pensiero lucido, corrente, rapido, immediato”. In attesa della ferocia della guerra, l’ammirazione “nei suoi confronti era di molto impallidita anche perché Monzeglio giocava ormai a calcio soltanto con i gerarchi, che presso i richiamati e le reclute (com’ero io) dell’esercito italiano godevano sicuramente di una simpatica popolarità”.
Il terzino fu incensato dal fascismo come eroe - lo sport era propaganda – “sulla scia delle altre vittorie che in quel periodo cementarono l’immagine trionfante di Mussolini in Italia e all’estero: quelle di Bottecchia e Bartali nel ciclismo, quelle di Carnera nella boxe, quelle di Nuvolari e Varzi nei motori”. Ma a differenza, per esempio, di Bottecchia antifascista e Bartali cattolico, Monzeglio ci credeva. Vivendo da “usciere, valletto, maggiordomo, confidente e consigliere, agente segreto”, convivendo con Pavolini e Rommel, donna Rachele e Clara Petacci, Arpino e Brera, sopravvivendo a guerre e agguati, vendette e regolamenti di conti. “Un fascista non fascista”, come si definiva lui, tanto da salvare la vita anche a partigiani comunisti. E il calcio, sempre. “La panchina a cui teneva di più, quella della Nazionale, non la ottenne mai – scrive Fulloni -. Per un paio di volte sembrò sul punto di farcela, ma venne sempre stoppato sul più bello. Qualcuno, in Federazione, gli spifferò che a bloccarlo era stata la passata vicinanza al Duce e ai suoi figli. Tra insinuazioni e obiezioni velenose, qualche dirigente insorse dicendo che, con quella nomina, i due sport più amati dagli italiani sarebbero stati guidato da ex repubblichini. Era un riferimento a un suo caro amico, Fiorenzo Magni, che nel 1963 era diventato commissario tecnico degli azzurri di ciclismo. Al Leone delle Fiandre era stato contestato il controverso passato nella Gnr. Al processo fu assolto dall’accusa di omicidio e amnistiato per quella, dimostrata, di collaborazionismo”.
Fulloni intreccia storie, narra avventure, recupera documenti, valorizza testimonianze: e resuscita “il terzino”. Non c’è giudizio, né tantomeno pregiudizio. C’è invece la consapevolezza, e la ricchezza, di una commedia umana straordinaria.
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