Paolo Tarabori, chi è costui? Presto detto, parliamo di un grande e forse ineguagliabile “passionista” di ciclismo. Nato a Lucca nel 1969 ma cresciuto a Montecarlo di Lucca, a due passi dall'abitazione di Michele Bartoli, Tarabori vive a Castelvecchio di Compito con la bellissima famiglia, composta dalla moglie Morena e da da due gemelli ormai sedicenni, Paolo è un imprenditore e collabora nelle aziende fondate dal padre. Conosciamolo meglio in questa intervista
Prima del ciclismo c'è stato un altro sport importante nella sua vita?
«In giovane età mi sono dedicato allo sci, ottenendo degli ottimi risultati; ero incoraggiato anche da mio padre che mi lasciava il tempo per gli allenamenti. Giunsi a disputare le finali regionali, ma poi un incidente mi costrinse ad abbandonare l'agonismo. Mi dispiacque parecchio anche perché al Corno alle Scale ebbi l'opportunità di conoscere ed allenarmi con due mostri sacri come Alberto Tomba e Giorgio Rocca. Poi, in estate, durante uno stage sullo Stelvio, mi presentarono Kristian Ghedina, con il quale feci amicizia. Dopo la tappa con arrivo a Cortina del Giro 2021 suo zio organizzò una grande festa e fui tra gli invitati insieme a molti sportivi ed al governatore della regione Veneto, Luca Zaia».
Il suo approdo al ciclismo?
«Avvenne d'estate, per non perdere la tonicità muscolare necessaria per sciare, mi consigliarono di praticare il ciclismo e fu un grande amore a prima vista. Così, dalle due uscite iniziali, arrivai ad allenarmi in bici per 5, 6 volte a settimana. La conseguenza fu che mi avvicinai al ciclismo amatoriale all'età di 23 anni, grazie a Pierluigi Castellani, attuale presidente del comitato lucchese della Federciclismo e all'arcinoto Carube, al secolo Roberto Lencioni, il meccanico di Cipollini e di tanti altri ciclisti, che mi tesserò per la sua squadra, appunto la Cicli Carube».
E' vero che trovò subito delle difficoltà?
«Detestavo le corse in circuito e non mi piaceva restare intruppato nel gruppo, con il pericolo di cadute. Così mi dedicai alle Gran Fondo e la mia prima GF fu quella delle Cinque Terre, 160 chilometri assai impegnativi che riuscii a completare, ma all'arrivo ero stravolto e con rabbia gettai lontano la bici, quasi rifiutandola. Tornato a casa accusai un febbrone da cavallo, ma presto mi tornò la voglia di riprovarci e in seguito mi sono cimentato nella Milano-Sanremo, nella Maratona delle Dolomiti, nella Trento-Bondone e in tante altre GF. Correvo per il Team Lucca 1997 e un anno ci classificammo terzi nel campionato italiano a squadre. A Monsummano invece mi classificai quarto assoluto nel campionato italiano, dopo essere stato sorpreso dalla fuga dei primi tre arrivati. Comunque vinsi la mia prima gara nel 1997, un circuito a Montecatini Terme».
Nel mondo del ciclismo lei è conosciutissimo, quali atleti le sono più amici?
«Con Vincenzo Nibali ho un rapporto bellissimo, così come con Giovanni Visconti, Francesco Chicchi e Alessandro Petacchi. Comunque posso dire di essere davvero amico di tutti e credo che tutti i ciclisti mi vogliano bene».
Lucca è tuttora un centro ad alta gradazione ciclistica?
«Sì. Lucca è una fucina di campioni e spesso mi capita di allenarmi con big del calibro di Mario Cipollini, Michele Bartoli o Francesco Chicchi. Soltanto una volta mi proibirono di seguirli – si trattava di Cipollini, Fornaciari e Galletti – poiché andavano a fare un allenamento speciale sulla FI-PI-LI, dietro un'auto guidata da Carube. Un allenamento pericoloso e alla fine a rimetterci fu proprio Carube, che si prese una super multa dalla Polizia».
Quando si concluse la sua carriera a due ruote?
«Nel 1998, quando – mentre mi allenavo insieme a Michele Bartoli – fui investito da una macchina che non rispettò uno stop e per le conseguenze fisiche dovetti abbandonare le gare amatoriali. Mi rimise in sesto il Professor Bufalini, a Firenze, il medico chirurgo che riattaccò la mano al fratello di Gianna Nannini».
E dopo cosa accadde?
«Rientrai a tempo “quasi” pieno nell'azienda paterna e mi tolsi la bella soddisfazione di ideare e far costruire un importante e funzionale impianto sportivo polivalente nella zona di Montecarlo, con palestra, pizzeria e ristorante annessi».
Ma l'amore verso il ciclismo non venne meno...
«Certo che no. Sviluppando le mie tante amicizie ho conosciuto molti campioni. Grazie a Cipollini conobbi Pantani, che mi regalò una maglia autografata e nel corso degli anni ho racimolato tantissimi cimeli ciclistici».
Segue tuttora le gare più importanti?
«Assolutamente sì, ho partecipato come ospite a decine di Giri d'Italia dal 1998 in poi, all'interno della Carovana Rosa. Quest'anno ho seguito le tappe da Torino a Napoli, quindi le ultime due fino all'arrivo conclusivo a Roma, dove ho festeggiato calorosamente la vittoria di Pogacar. Intrattengo ottimi rapporti con i fratelli Alex e Johnny Carrera, che mi invitano regolarmente alla festa annuale della loro società e dove ho incontrato, tra gli altri, Giulio Ciccone, Marta Bastianelli e Antonio Tiberi. Inoltre seguo le Classiche internazionali più importanti e sono stato varie volte al Tour de France, dove nel 1995 assistetti al successo-record sull'Alpe d'Huez di Marco Pantani. E naturalmente sono stato ospite anche al Tour de France quest'anno, per la prima storica grande partenza dall'Italia».
Ma questo Pogacar è ormai un grande del ciclismo?
«Sì, senza dubbio. Oltre a ciò è anche un ragazzo semplice e disponibile, che piace molto alla gente: tra noi c'è stima e rispetto».
Il suo sogno nel ciclismo?
«Seguire un Giro d'Italia dall'inizio alla fine, per tutte le tappe, ospitato da una squadra sul bus. Sarei disponibile a svolgere qualsiasi compito o mansione, anche come meccanico o collaboratore dei direttori sportivi. A dire il vero ho già al mio attivo un'esperienza simile, con i tre giorni trascorsi nel bus di un team di categoria Professional».
C'è poi stato un ritorno di fiamma verso la bici pedalata?
«Sì, ho partecipato a varie edizioni del Giro-E, su bici con pedalata assistita e nel 2021 abbiamo vinto la classifica finale del Giro d'Italia-E con la squadra guidata da Massimiliano Lelli».
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