L’uomo che visse due volte ha un cuore grande e ballerino, anche se Riccardo Magrini ama soprattutto cantare Celentano, l’Eddy Merckx della canzone. L’uomo che visse due volte è morto già una volta, ma non se n’è accorto, gli è parso l’ennesimo volo verso mondi lontani, gli stessi che lui è solito raccontare con quella inconfondibile parlata toscana con la “c” aspirata e la capacità di rendere un fatto di cronaca in fiaba.
Lieve e leggero, a dispetto dei suoi 110 chili di magro il Magro ha solo il soprannome. È fatto così, come una vera pietanza toscana: saporita ed eccessiva, ma mai indigesta. Ti conquista con una battuta, ma anche con una pausa, che dice più di tante altre parole. Un uomo solo al microfono con un solo brogliaccio e qualche appunto sparso, mai un copione, «amo improvvisare, seguire il cuore per lasciarmi guidare dall’istinto, dall’aria che respiro», anche se lo scorso 5 novembre ci ha lasciato ancora una volta con il fiato sospeso.
«Dopo un paio di infarti ho superato anche un ictus – racconta la voce tecnica di Eurosport che da anni fa coppia con Luca Gregorio -, ma questa volta è stata una passeggiata. Un ballo in maschera. Parlate con uno che può dire di essere già morto una volta…».
Era il 2017.
«E sono risorto. Sono qui grazie a Lucio Rizzica, collega di Sky, che mi ha praticato il massaggio cardiaco negli studi di Milano Santa Giulia. Ero in compagnia di tanti amici patiti di ciclismo come Giovanni Bruno, Guido Meda e Nicola Roggero e poi il buio. Mi sono risvegliato nell’unità di terapia intensiva del San Raffaele diretto dal dottor Zangrillo».
Quest'anno saranno 20 anni di commenti per Eurosport.
«Saranno anche 70 di vita: sono volati via in un amen, ma sono pronto a farne altrettanti».
Se impara a volersi bene.
«Ma io mi voglio benissimo».
Quando correva era il Jerry Lewis del gruppo.
«Facevo le imitazioni, suonavo la chitarra, e facevo tanto casino, ma nonostante tutto ho ottenuto anche qualche vittoria di peso: una tappa al Giro, una al Tour e un Giro della Provincia di Reggio Calabria».
Poteva fare di più.
«Avrei anche potuto fare di meno, però ho ottenuto quello che meritavo. Amavo più vivere che vincere. Godere più che faticare. Cantare più che pedalare».
Soprattutto Celentano.
«Il massimo, nessuno come lui. Il sogno? Conoscerlo e trascorrere con lui almeno un paio di ore, ma anche quattro, se solo il Molleggiato volesse anche un giorno intero…».
Non si allarghi…
«Più di così…».
Più musica o ciclismo?
«Sci. È lo sport che amo. È la mia vera passione. Sarei stato un buon gigantista. Ho avuto il via libera dal cardiologo per andare a sciare a Falcade, dal mio amico Renzo Minella. Sa quanti sciatori amano andare in bicicletta? Dalla Goggia alla Brignone, da Mattia Casse a Luca De Aliprandini, da Ivano Edalini a Christof Innerhofer fino a Giuliano Razzoli».
Il ciclista per eccellenza?
«Felice Gimondi. È stato il mio amore confessato. Che atleta, che uomo e che peccato non sentirlo più».
Altri amori?
«Francesco Moser, una forza della natura, poi Marco Pantani, il genio, la forza e la debolezza».
La squadra del cuore?
«La Juventus. Adoro Max Allegri, anche se sono amico di tanti del mondo calcio, come Maurizio Sarri, un vero malato di ciclismo».
Il calciatore.
«Paolo Rossi, uomo umile e generoso, di una bontà contagiosa. La sua morte è stata per me dolore vero».
Oggi c’è un bel ciclismo, chi è quello che più la emoziona?
«Tadej Pogacar: fortissimo e modesto. Giocoso e ingordo. È un cannibale con il sorriso. È disarmante per forza e sportività. Nessuno come lui».
Cosa manca al nostro ciclismo?
«Una squadra di World Tour che punti sui nostri ragazzi e li faccia crescere con pazienza e senza utilizzarli come carne da macello».
All’orizzonte c’è qualcosa?
«Io credo molto in Antonio Tiberi: è un ragazzo di talento che l’hanno scorso ha fatto intravvedere di che pasta è fatto. Deve prendersi lo spazio: ad un certo punto bisogna osare e prendersi ciò che ci appartiene».
Fortuna che abbiamo Filippo Ganna.
«Lui è il nostro portabandiera, talento assoluto e di livello. Fortissimo in pista, forte su strada. Nemmeno lui sa ancora quanto è forte e quali siano i suoi limiti».
Altri nomi?
«Filippo Zana, Andrea Bagioli e Alberto Bettiol: tre atleti che hanno tutto per farci divertire».
La corsa che le è rimasta nel cuore?
«In assoluto il mondiale di Barcellona vinto da Felice Gimondi, se ci penso mi viene ancora da piangere».
Quella che ha commentato.
«Tante, ma direi la Sanremo di Nibali e il Fiandre di Bettiol, ma anche la vittoria di Alberto Contador a Fuente Dé. Però non posso dimenticare la Roubaix di Sonny Colbrelli, il mio collega di cuore, visto che siamo fratelli di defibrillatore».
Non è finito ancora nella Treccani, ma ha inventato in ogni caso un nuovo linguaggio.
«Ho cominciato con “il veglione del tritello”, per dire che è successo un terremoto e ho reso il dialetto toscano un linguaggio universale. Dal Vernacoliere all’Accademia della Crusca. Da “si ma non ti credere…” dei livornesi a “bada la gente…”, dei lucchesi, fino a “cane vecchio sa”».
Che ora è il nome del suo gruppo, “Cane vecchio sound”: un modo per incontrarsi e cantare.
«Io e Luca (Gregorio, ndr) siamo il duo base, ogni tanto si aggiungono a noi Moreno Moser e Federico Balconi, e giriamo l’Italia raccontando storie di ciclismo e cantando canzoni di Ligabue e Baglioni, Venditti e De Gregori, De André e Celentano».
Il cavallo di battaglia?
«"Una carezza in un pugno". Il top dei top».
“Cuore matto” no?
«Di matto basto io»
da Il Giornale