È stato campione d’Italia, ma non ha mai corso un mondiale con la maglia azzurra. In compenso da tre anni è cittadino svizzero e con la maglia della Confederazione elvetica si è tolto la soddisfazione di correre la rassegna iridata di Imola nel 2020. Enrico Gasparotto, 40 anni, di cui sedici trascorsi nel mondo del ciclismo professionistico, in carriera ha raccolto dieci corse, tra le quali spiccano la maglia tricolore del 2005 e due edizioni dell’Amstel Gold Race (2012 e 2016), la corsa della birra che si correrà oggi sulle strade del Limburgo olandese e che apre ufficialmente la fase finale delle classiche del nord (mercoledì la Freccia, domenica la Liegi, ndr).
«Della mia carriera sono più che soddisfatto – ci racconta l’italosvizzero -: non ero un campione, ma penso di essermi tolto le mie soddisfazioni e oggi sono felice perché sono rimasto nell’ambiente con un ruolo importante di direttore sportivo in uno dei team più forti del mondo, la Bora Hansgrohe con la quale al mio esordio abbiamo centrato l’anno scorso il Giro d’Italia con l’australiano Jai Hindley».
Il punto più alto della sua carriera? Chiaramente l’Amstel Gold Race, la corsa più importante d’Olanda. «La seconda, quella del 2016, ha rappresentato per me il momento più emozionante e alto, anche perché non ero più in un top team come l’Astana, ma in una squadra di seconda divisione (la Wanty-Groupe Gobert, ndr). In più a rendere tutto più difficile c’era anche stata la tragica scomparsa di un nostro compagno di squadra, morto in gara alla Gand-Wevelgem (Antoine Demoitie, ndr). Dedicargli la vittoria è stato qualcosa di speciale».
Parla e spiega tutto, Enrico Gasparotto, che parla correttamente francese e inglese, tedesco e anche un po’ di polacco, per via di sua moglie Anna Moska. Parla e spiega, anche di quello che si aspetta da tecnico oggi all’Amstel. «Se mi consente una battuta, le dico che si correrà per il secondo posto, visto che al via c’è Pogacar. Ma è una boutade, chiaramente, le corse si fanno proprio per sovvertire i pronostici: noi ci proveremo con Sergio Higuita e Ilde Schelling».
Parla e spiega il momento magico dei “fenomeni”. «Ci sono corridori eccezionali, quei magnifici sei sono di un altro pianeta, con Pogacar in cima a tutti. Ma dopo il Covid è cambiato qualcosa in tutti: c’è voglia di correre e divertirsi, di dare spazio alla creatività. C’è ricerca, ma anche tanta emotività, che è stata compressa per troppo tempo».
Parla e spiega bene, Enrico. «Cos’è l’Amstel? Una sfida estenuante a chi sa tenere le posizioni. Ti consuma come poche».
Parla e spiega, anche il momento no del ciclismo italiano. «Abbiamo Filippo Ganna che sta facendo vedere cose molto belle, e poi c’è qualche buon corridore, ma al momento soffriamo. Il perché? Il ciclismo è cambiato e noi italiani non ce ne siamo accorti. Nel 2005 la Liquigas era uno dei top club, con una settantina di persone impiegate. Oggi alla Bora siamo quasi in 120. Molte più figure professionali, molta più attenzione al particolare. L’Italia ha perso il treno. In Italia i ragazzi non si allenano, ma corrono in continuazione. In Europa i ragazzi fanno blocchi di lavoro specifici per poi essere pronti a correre. Meno corse, più lavoro».