La chiamavano “the little Dutchy”, la tedeschina. Piccola di età, grande di voglie. Povera di soldi, ricca di iniziative. Da Monaco di Baviera a New York: aveva 16 anni. Campava come bambinaia, insegnante, modista, viveva di sogni, voglie, progetti. S’innamorò dei velocipedi. Dichiarò il falso, 18 anni, e fu autorizzata ad allenarsi e gareggiare su un circuito di 25 miglia (una quarantina di chilometri) aperto – alternativamente – alle due o alle quattro ruote. E qui nacque la sua vocazione.
Si chiamava Margareta Nagengast, si fece chiamare Margaret Gast, ma continuavano a chiamarla “the little Dutchy”. Pioniera del ciclismo, si specializzò nelle competizioni su pista, partecipò anche alla Sei Giorni di New York al Madison Squadre Garden. Finché si prefisse di battere il record delle mille miglia (1609 chilometri). Cinque settimane di preparazione, due allenamenti al giorno, ogni volta tre o quattro giri del circuito, 300 chilometri al giorno. E nel giugno 1900 divenne la primatista mondiale sulla distanza impiegando 120 ore. Il “New York Times” le dedicò un’intera pagina. E qui nacque la sua stella.
Margaret si sarebbe impadronita del record delle 500, delle 2mila e delle 2600 miglia (e pensare che avrebbe voluto stabilire addirittura quello delle 5mila miglia), cioè più di 4mila chilometri percorsi in 12 giorni, 8 ore e 55 minuti, con una media di 16 ore al giorno in sella. Poi, come avrebbe fatto anche Alfonsina Strada, sarebbe passata agli spettacoli circensi, si sarebbe trasformata in motociclista, sarebbe diventata meccanica, massaggiatrice, attrice, perfino paladina delle donne posando – accanto a una bici – per una cartolina e una rivista femministe. E qui nacque il suo mito.
Margaret Gast è una delle 23 donne che hanno fatto la storia dello sport, cui Melania Sebastiani ha dedicato un ritratto in “Dawn, Vera, Wilma e le altre” (Bolis Edizioni, 168 pagine, 14 euro, con la prefazione di Gino Cervi). Da Hélène Dutrieu (ciclismo e aviazione) a Jeanne Vina La Mar (pugilato), Esther Williams e Dawn Fraser (nuoto), Fanny Blankers-Koen, Nina Ponomareva, Wilma Rudolph, Cathy Freeman e Saamiya Ysuf Omar (atletica), Lis Hartel (equitazione), Althea Gibson (tennis), Larisa Latynina e Vera Caslavska (ginnastica), le sorelle Christine e Marielle Goitschel (sci), Fabrizia Pons (rally), Ellen O’Neal (skateboard), Surya Bonaly (pattinaggio su ghiaccio), Audrey Mestre (apnea), Maria De Villota (Formula 1), ma anche Emma Gatewood (che a 77 anni percorse a piedi l’intero sentiero degli Appalachi) e Ida Nomi Venerosi Pesciolini (che tradusse le regole del basket di James Naismith), nonché la marcia delle “midinettes” (l’antesignana delle corse a piedi femminili).
Morale. Se per gli uomini le piste erano piatte, per le donne in salita. Se per gli uomini i campi erano aperti, per le donne chiusi. Se per gli uomini le pedane erano libere, per le donne piene di ostacoli e barriere, pregiudizi e preconcetti. Se ancora adesso i primati degli uomini sembrano migliori, quelli delle donne sono più valorosi.