Bilancio. Ecco una di quelle parole forse abusate, quelle parole che si usano quando si sente il bisogno di tirare un po’ le somme e vedere com’è andata. Il Giro d’Italia è finito e Ivan Basso ha passato qualche giorno a riflettere e pensare. Ora ha deciso di parlare e il suo non è un vero e proprio bilancio: è più un guardarsi attorno, un ripercorrere quelle tre settimane intense e piene di cose. Combattuto tra la legittima soddisfazione per quanto fatto, e una vaga sensazione di incompiuto: come se al Giro della Eolo-Kometa fosse mancato qualcosa…
«Partiamo da una considerazione, che forse abbiamo ricordato poche volte: nel 2021, abbiamo fatto qualcosa di eroico. Per la squadra che eravamo, per la nostra storia, per quello che siamo riusciti a fare accadere. Dopo un Giro come quello, era ovvio e normale che la nostra squadra fosse un po’ sovrastimata: dall’esterno, ma anche da noi stessi».
E che Giro è stato, questo, per la sua squadra?
«Un Giro in cui abbiamo fatto il nostro dovere. E in quest’espressione c’è tutto, perché fare il proprio dovere è sicuramente importante ma purtroppo non basta quando si vogliono fare grandissime cose. Per fare un Giro “eroico” fare il proprio dovere non è sufficiente».
E il proprio dovere, l’hanno fatto tutti?
«L’ha fatto la squadra, questo di sicuro. Per quanto riguarda i singoli, non ne parlerò certamente qui ma affronterò ogni corridore personalmente per discutere con ognuno di loro che è stato partendo da una grande autocritica».
Ovvero?
«Il primo a doversi chiedere se davvero ha fatto il proprio dovere sono io».
E Ivan Basso ha fatto il proprio dovere?
«No. Perché non sono stato sufficientemente bravo a far capire ai corridori quanto fosse importante l’ultima settimana. Dopo le prime due settimane in cui abbiamo corso bene pur commettendo errori (penso alle tappe di Napoli e Genova), nella terza siamo mancati. E la colpa è mia, che evidentemente non ho trasmesso le sensazioni giuste».
In tanti hanno sottolineato la vostra mancanza nelle fughe decisive, proprio nell’ultima settimana…
«Questo è stato un Giro molto duro, in cui le fughe sono andate via di forza, di sfinimento. Sono andati in fuga i corridori più tenaci e più coraggiosi e a noi forse è mancata un po’ di forza e non abbiamo avuto abbastanza coraggio. La nostra assenza si è notata e ha fatto notizia perché noi in fuga ci siamo sempre stati, e la differenza tra esserci e non esserci è legata da un filo sottilissimo. Penso alla tappa del Fedaia: se Fortunato, che poi è arrivato con i migliori dimostrando una grande condizione, fosse entrato nella fuga avrebbe avuto ottime possibilità di fare risultato. E c’è mancato davvero pochissimo, credetemi».
A proposito. Ancora convinto della scelta di fargli fare classifica?
«Fortunato ha fatto ventuno giorni in altura, poi è andato alle Asturie e ha lottato alla pari con Yates che era uno dei favoriti per la vittoria del Giro. Qualunque manager e qualunque direttore sportivo, di fronte a una situazione del genere, avrebbe deciso a occhi chiusi di provarci. Detto questo, un ragazzo di 25 anni ha bisogno di provare e anche di sbagliare: i limiti si superano solo correndo con i migliori».
Eppure, da fuori, non è mancata qualche critica…
«Per parlare bisogna conoscere. Altrimenti quello che si dice resta nel campo delle opinioni: legittime, sacrosante, ma spesso lontane dalla realtà delle cose».
Non si può negare, però, che le aspettative fossero differenti…
«Guardate che i primi ad avere aspettative siamo io, Fran e Alberto. Siamo noi i primi a non essere contenti se non vinciamo, se non andiamo in fuga o se non siamo all’altezza. Quando non si raggiungono gli obiettivi o non si è contenti, si può fare solo una cosa: lavorare per migliorare quello che non è andato bene, consolidare quello che ha funzionato, cambiare quello che è andato male. Insieme ai tuoi uomini o, dove necessario, cambiando delle pedine. Questo vale per i corridori, e vale anche per lo staff».
In che senso?
«Questa squadra due anni fa non esisteva: c’era una Continental in grandissima difficoltà e c’erano due signori di nome Pedranzini e Spada che l’hanno presa per mano e portata fin qui. Questo significa che una squadra per andare a regime ha bisogno di tempo, ha bisogno di provare e di correggere, ha bisogno di crescere».
Il momento più bello del Giro appena concluso?
«La fuga di Mirco Maestri. C’è mancato davvero un soffio, ma proprio pochissimo. Però è stato bellissimo».
Il più brutto?
«Il giorno del Fedaia quando abbiamo visto che Fortunato non era in fuga. Lì abbiamo capito che avremmo chiuso il Giro senza vincere una tappa. Però ci sono stati altri due momenti belli, che vanno oltre la corsa».
Prego…
«In Ungheria, alla partenza della tappa da Kaposvar che è la città dove c’è il quartier generale di Kometa. Giacomo Pedranzini quel giorno era felice, felice in modo sincero e genuino come solo lui sa essere: il Giro era arrivato a casa sua e Giacomo se lo meritava perché lui davvero c’è sempre stato ed è sempre stato capace di dire la parola giusta al momento giusto. E poi, Luca Spada. Io e Luca siamo andati a correre quasi tutte le mattine prima della colazione, ed era diventato un rito: prima dell’ultima tappa mentre correvamo lui ha parlato e io ho ascoltato. Evidentemente ha compreso il mio momento di difficoltà, e mi ha detto cose forti, importanti, da imprenditore capace di illuminare. È stato sponsor, ma è stato soprattutto uomo: e uomo di sport».
E adesso?
«E adesso, c’è il futuro. Che si chiama Adriatica Ionica Race, dove andiamo con Fortunato per difendere la vittoria dell’anno scorso, per poi continuare con il Giro di Slovenia e i campionati italiani. E che si chiama lavoro. Il Giro d’Italia è un moltiplicatore capace di amplificare le cose belle come quelle brutte: mettiamolo nel cassetto, e continuiamo a crescere. In squadra, posso già annunciarlo, arriveranno cinque-sei innesti nuovi per salire ancora di livello. E siamo al lavoro con i nostri sponsor, attuali e futuri, per diventare sempre più solidi. Perché la strada è tracciata».