Giovanni Malagò, presidente del Coni, felicemente ancorché abbastanza trionfalisticamente reduce dalle tante nostre medaglie ai recentissimi Giochi invernali di Pechino e vasti misteriosi dintorni, a proposito del necessario cambio anagrafico della guardia nel deludente sci alpino maschile azzurro, ha detto che nel futuro anche prossimo i rapporti fra atleti di lunga carriera, veterani o quel che si voglia, e partecipazione degli stessi ai grandi eventi saranno regolati direttamente dal suo intervento.
Frase che secondo me è da riacchiappare al volo per buttarla via, perché presuppone un azzeramento di tante incombenze specifiche: e in effetti già ci sono, nel gran mondo dello sport, segnali di contrarietà sotterranea, dissenso scoperto, insofferenza assortita. Forse era meglio se Malagò si buttava gagliardamente sul problema delle nostre primedonne della neve e del ghiaccio, alcune ribelli ormai allo schema federale che vuole un responsabile per settore e l’adesione degli atleti ai principi generali di conduzione e comportamento. Le nostre atletesse “invernali“ (anche se si pattina e si gioca persino al divino curling tutto l’anno), in molti casi assai forti, e magari proprio quelle più spavaldamente sicure e indipendenti, si sono appoggiate con successo per la preparazione a mariti, fidanzati (la pioniera più grande e pure recente sorse dalle acque, vi dice niente, nome e cognome, una certa Federica Pellegrini?), fratelli, genitori, zii, amici dei parenti e degli amici, hanno fatto spavaldamente di testa loro, ieri hanno preso medaglie ma domani magari annaspano e magari è tardi per rimediare. Possibile secondo me contemperare esperienze particolari, conoscenze speciali e anche, perché no?, utile esistenza di legami affettivi, con la disciplina del resto della rappresentativa: roba magari da validi specialisti delle più dinamiche psicopierre, non da diretti interessati, né dal presidente del Coni in veste di gran capo santo, di saggio e anziano predicatore/dispensatore (se necessario con imposizione) di pace e bene.
Lunga premessa, devo tornare indietro. Malagò, megapresidente di tutto il nostro sport, tirerà diritto concretizzando nei fatti la sua asserzione, il suo progetto, o si arrenderà al buon senso atavico? Mi soccorre - ci sono, ci siamo - il ciclismo, dove la figura dell’anziano saggio esperto il quale sa sempre come fare si sovrappone spesso efficacemente a competenze magari arditamente tecniche, a mode, a consuetudini ed esperienze mediate da altri sport. Dove avere conosciuto bene il passato e magari esserne stati fra gli ottimi artefici non è una zavorra, ma un pregio, un valore. Dove l’esperienza più semplice e intanto più nitida, più persuasiva e intanto meno dittatoriale, serve eccome. Dove un massaggiatore cieco indovinava Fausto Coppi tastando i muscoli delle gambe di uno scheletrico ragazzo. Dove mangiare trentadue uova (e crude: Alfredo Binda, dicunt, in un Lombardia) serve eccome a vincere la fame, contro ogni credenza di sommi nutrizionisti.
Personalmente ricordo due grandi campioni dello sport per me comunque massimo, l’atletica, il marciatore olimpionico e campione mondiale Maurizio Damilano e il mezzofondista campione europeo Franco Arese, entrambi guarda un po’ della grande (in tanti sensi, persino quello geografico) provincia di Cuneo, che per lo sport italiano così come per l’Italia tutta ha fatto e fa sempre ottime belle cose, peraltro con un riserbo, una modestia, una semplicità che fanno ironizzare per invidia sinanco gli altri piemontesi meno chiusi, meno restii a parlare e lasciar parlare bene di se stessi. I due, miei amici persin prima che miei ottimi soggetti di giornalismo ovviamente ammirativo ed elogiativo, amavano (e amano) assai il ciclismo, che incarna ancora un lessico ormai in disuso, tipo umiltà, sacrificio, dovere, fatica e tanti altri scomodi termini. Damilano e Arese, questi fra l’altro industriale brillante nel settore dell’abbigliamento sportivo, mi interrogavano continuamente sul ciclismo e venne il tempo in cui, Arese presidente e Damilano direttore, fecero la squadra professionistica, si chiamava Asics, l’acronimo dei capi che Arese vendeva, capi di matrice giapponese (Asics da “Anima Sana In Corpore Sano”, un detto chissà come passato dal latino di Roma arcaica al dinamismo del paese del Sol Levante).
I due con i loro fratelli anche gemelli fecero la squadra, capitano Bartoli, fra i componenti - rimembro - un Noè che aveva le stimmate del forte scalatore anche se vinceva poco. L’esperimento fu breve, spese alte e allergia di tanti alla gente nuova, ma i due grandi ex dell’atletica e i loro accoliti prevalentemente cuneesi si divertirono assai, e videro messe in strada le loro voglie sportive, le loro simpatie. Entrambi praticanti sport umili, senza sofisticazioni di sorta, erano entusiasti più degli ultimi pedalatori ruspanti che delle biciclette sempre più avveniristiche. A me quei due servono adesso, qui, per mettere per iscritto che sempre, nella mia professione di giornalista sportivo, sono stato felice e anche un po’ fiero di venire interrogato sul ciclismo “mio” da gente importante di altri sport, fra i più assidui Mario Pescante predecessore al Coni di Malagò. Mi chiedevano del ciclismo non come sport membro di una vasta famiglia di discipline, ma come entità speciale, di natura sportivissima si capisce ma diversa, fra l’altro con la proposta di spostamenti grandi con la sola forza antica di quei motori chiamati gambe.
Ancora adesso, quando mi vedo con Maurizio o con Franco, loro mi chiedono “come va il ciclismo, come lo vedi?”. Non so bene cosa dire, so che comunque aspettano da me risposte che non so dare, comunque lusingato offro un bla-bla-bla minimo e cerco, svicolando e svincolandomi, di passare a parlare di calcio, dove ogni scemata vale un Perù.
da tuttoBICI di marzo