Omegna è una cittadina assolutamente non bella ma intanto connotata da un fascino triste, lacustre e non. Sta sul lago d’Orta, in Piemonte. La provincia una volta era quella di Novara, poi c’è stata una diciamo scissione ed è nato il Verbano-Cusio-Ossola. Il primo nome è quello del lago detto anche Maggiore, che sulla mappa geografica appare, ben più grosso, a destra del lago d’Orta. Il secondo nome - Cusio - è quello classico di Orta. Il terzo nome fa riferimento a Domodossola e alla sua zona di montagna anche alta (il massiccio del Rosa). Il lago Maggiore ha una sponda piemontese, quella dove c’è la città di Verbania, che fronteggia la sponda lombarda, quella di Luino, zona dei natali di Piero Chiara scrittore o se preferite di Gigi Riva calciatore. Verbania è la città dove è cresciuto al canottaggio, lui figlio di un piemontese verbanese, Giampiero Galeazzi, il gran telecronista del remo mancato da poco. E al Verbano appartiene Quarna di Sotto, paesino di fabbricanti di strumenti musicali in legno, da dove partirono Domenico Coppi e Angliolina Boveri per andare a fare i contadini nell’Alessandrino, a Castellania dove misero al mondo un certo Fausto e un certo Serse ciclisti.
Nella sua parte settentrionale il lago Maggiore o lago Verbano diventa Svizzera, la Svizzera di Locarno. Avete presente il lago di Garda, col suo turismo in tedesco e il suo grande placido distendersi? Beh, l’Orta è altra cosa, turismo straniero scarso, anche se la Svizzera incombe appena al di là di quelle montagne che sembrano quasi nascere dalle acque. Pochi albergoni, pochini alberghini, villette tipo seconde abitazioni quasi niente. E imbarcaderi spesso nascosti, e sempre acque cupe. Omegna poi, a nord, è tanta industria, specie del settore elettrodomestico, con crisi, scioperi, paure ricorrenti. Ma ad Omegna è pure nato Gianni Rodari, che ci fa tutti bambini poeti, basta leggerlo e amarlo e fare segno di sì con la testa.
Sono stato a Omegna per una cerimonia, il premio letterario locale alla Resistenza, così appunto fatta ogni anno rivivere, assegnato a David Grossmann per il suo libro “Non sparare alla colomba”, secondo classificato il libro “Bartali, una bici contro il fascismo” di Alberto Toscano, la storia della collaborazione di Gino il pio con il movimento partigiano, fra l’altro assumendo con coraggio estremo rischi altissimi, come il portare in Vaticano documenti di ebrei lì rifugiati, passando in bicicletta, come per un allenamento, le linee naziste. Storia vecchia riaperta dalle cure nuove speciali alla memoria di quei fatti di cui Gino mai si arrogò i meriti. Lui d’altronde detestava ogni forma di esibizionismo. Naturalmente io, sulla scorta di mezzo secolo di bella amicizia con Bartali (per questo ero stato convocato), ho parlato sì dei suoi meriti, ma soprattutto della sua reticenza a pubblicizzarli. Niente di speciale insomma. Ma allora?
Allora il fatto è che ho vissuto momenti intimi straordinari ricordandomi dentro Bartali, la sua onestà, il suo quasi stizzirsi quando io, torinese coppiano, facevo troppo il piemontese anzi il sabaudo, il bene che comunque mi volle e che trasferì su un suo figlio, Andrea, mancato anzi mancatomi da poco. Davanti a me avevo un bellissimo centinaio di giovani che stavano a sentirmi. Non mi pensavano bollito, mentre magari lo sono un bel po’, grazie anche al lungo mio orribile covid. Non solo credevano alle cose belle che ricordavo e trasferivo su di loro, cose fra un grande uomo e un piccolo giornalista, ma anche a tutto il contorno che offrivo, che ammollavo, al “come eravamo” di noi vecchiacci che di solito nei giovani provoca scocciature assortite.
E ho capito in pieno che in fondo quei giovani erano come io sono anzi cerco quasi disperatamente di essere, come sono stati e saranno sempre i giovani, lasciandosi scorrere addosso mode anche cretine, come acqua su tessuto impermeabilizzato. E ho capito in pieno che esiste ancora una “koiné”, un lessico comune per parlare di certe cose. E che bisogna essere ottimisti, e questa è la nuova Resistenza.
E che dovevo in fondo questo a Bartali, e dunque al ciclismo. Così consigliai a tutti una gita a Briançon, poco più di 100 comodi chilometri anche autostradali da Torino, nella Briançon dove Bartali vinse arrivando col Tour, e dove anche Coppi lasciò i suoi segni forti. L’accesso alla città vecchia è anche effettuabile su un ponticello dove ci sono lapidi che ricordano pure i trionfi al Tour dei ciclisti italiani, e in italiano sta la scritta di riconoscenza a “Bartali il pio”. Penso che alcuni dei giovani di quella mia splendida Omegna andranno a Briançon. Come lo sono del fatto che solo il ciclismo, nello sport, si permette ancora miracoli di questo tipo.
Ps. Fra quei giovani c’erano anche - proporzione direi cinquanta per cento - ragazze quasi tutte belle e per me comunque tutte in possesso di un qualcosa di bello. Penso che tutti, ragazzi e ragazze ognuno con la sua mascherina personalizzata ma non stupidamente, erano mascherati anzi mascherinizzati ma, stando alle loro reazioni, nessuno era fasullo, travestito, nascosto. E sono pensieri che chissà se esistono fuori dello sport, e chissà se nello sport esistono fuori del ciclismo.
da tuttoBICI di dicembre
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