A discapito di quanto dichiarano le milizie che in questi giorni hanno conquistato Kabul, i diritti e le libertà faticosamente conquistati negli ultimi vent’anni saranno ora soppressi. Le prime vittime della conquista talebana dell’Afghanistan sono le donne. Tra loro ci sono le ragazze che avevano iniziato, faticosamente, a praticare ciclismo e che lo scorso 9 marzo avevamo applaudito a distanza. Ci eravamo emozionati a vedere queste 50 donne pedalare a testa alta, non solo per loro stesse, ma per le loro figlie e le bambine che immaginavano in un futuro prossimo non avrebbero più dovuto rischiare di essere prese a sassate mentre vanno in bici o correre il rischio di essere investite di proposito. In pochi giorni questo futuro è diventato un miraggio, un sogno che nelle notti insonni non si riesce più nemmeno a visualizzare con la fantasia. La loro vita è ad alto rischio. I talebani ritengono il ciclismo un tabù, anzi, un vero e proprio scandalo, motivo di disonore.
Oggi siamo in apprensione per loro, le immaginiamo chiuse in casa, a piangere giorno e notte, disperate dal dover dire addio ai loro sogni e più semplicemente alla loro quotidianità fatta di studio, lavoro, passioni e libertà conquistate a caro prezzo. Speravamo la bici potesse portarle in salvo, invece ora sono costrette a nasconderla, a cambiare la loro identità, a rinchiudersi in casa. Loro sono ben più consapevoli di noi di ciò che le aspetta: un salto indietro nel passato capace di sopprimerne la voce in nome della Shari’a. Le mosse del gruppo estremista volte a cancellare il loro passaggio sono già in atto e la persecuzione femminile è una realtà concreta che non smetterà di mietere vittime. Innumerevoli studentesse sono già state cacciate dalle proprie università, lavoratrici allontanate in via definitiva dalle loro occupazioni e bambine rapite come bottino di guerra per essere date in sposa ai soldati giunti nella città.
Le donne che hanno provato a criticare il nuovo regime o hanno violato le regole imposte sono state umiliate o picchiate pubblicamente, alcune persino uccise. Da brividi il video ormai virale, condiviso per la prima volta dall’attivista per i diritti umani Masih Alinejad, della ragazza anonima che tra le lacrime ripete: «Non contiamo perché siamo nati in Afghanistan. Non posso fare a meno di piangere. Moriremo lentamente nella storia. A nessuno importa di noi».
A qualcuno di loro invece importa, anche nel nostro Paese. Alessandra Cappellotto, prima ciclista italiana campionessa del mondo, responsabile del CPA Women e presidentessa della ASD Road To Equality, da giorni si è mobilitata per portare in salvo le cicliste afgane. «Ho interpellato l'UCI, la FCI, il Ministero dello sport e degli affari esteri italiano, le Nazioni Unite, le ONG attive in quell'angolo di mondo da cui bisogna fuggire il più presto possibile, soprattutto se sei una donna. Ho chiamato e scritto a tutti coloro che possono darmi una mano a trarre in salvo queste ragazze, che sono atterrite dalla paura. Se ci riuscirò sarà la mia vittoria più bella» spiega l'ridata di San Sebastian 1997, che è anche vicepresidente dell'Associazione Corridori Ciclisti Professionisti Italiani oltre che rappresentante delle cicliste in tutto il mondo.
Prima dell’arrivo degli americani sul suolo nazionale e dei conflitti che hanno lentamente restituito ai civili i loro territori, i talebani governavano il paese dal 1996. La legge del tempo prospettava un contesto in cui alle donne non era consentito uscire di casa senza un accompagnatore di sesso maschile ed era proibito ridere in presenza di uomini o avere una qualsiasi forma di contatto fisico con il sesso opposto. Era passibile di punizione corporale anche solo indossare delle scarpe che potessero far udire il suono dei propri passi per strada. Figurarsi delle scarpette da ciclismo con le tacchette...
«Questo scenario potrebbe presto ripetersi e non verrebbero, come accade oggi, cancellati solo i volti delle donne occidentali presenti sui cartelloni pubblicitari di Kabul. Ad essere oscurati agli occhi del mondo sarebbero tutti i volti delle cittadine dell’Afghanistan, comprese le nostre sorelle cicliste. Non possiamo permetterlo, aiutatemi a portarle in Europa, in questo momento non c'è gara più importante di questa per la vita» è l'appello di Alessandra Cappellotto.