Una maledetta infernale pietraia. Altro che il pavé della Roubaix, altro che lo sterrato dell’Eroica. Si chiama ripio: è “un itinerario misterico”, è “un percorso arcaico”, è “unico, irripetibile, indimenticabile”. Ed è 623 dei 1247 chilometri della Carretera Austral, la strada che percorre come una spina dorsale la Patagonia cilena e si conclude in Argentina.
Alberto Fiorin ha tradotto le pedalate sul ripio nelle parole della “Carretera Austral” (Ediciclo, 224 pagine, 17,50 euro). Da nord a sud, da San Carlos De Bariloche a El Calafate, lungo la Ruta 7, con un figlio (Fausto, le stimmate della passione ciclistica già nel nome coppiano) e un amico (Dino, che alla forza delle gambe abbina l’abilità delle mani, ciclista anche nel senso di chi sa come guarire un telaio artritico o una catena infartata), tre uomini in bici, a zonzo, in missione per conto di se stessi, verso uno di quei luoghi considerati, per la sua posizione sulla mappa, la fine del mondo.
L’importante, sul ripio, è galleggiarci. Trovare l’equilibrio tra bici e corpo, tra cielo e terra, tra sacco a pelo e tenda. Riconoscere la differenza tra il ripio morbido e quello sabbioso, tra il ripio fangoso e quello vulcanico, tra il ripio tagliente e quello sdrucciolevole, tra il ripio con le canaline e quello con il pietrisco. Finché l’attenzione diventa abitudine, finché il dolore si trasforma in piacere, finché le necessità si semplificano in essenzialità. Sapendo che “ogni giorno è un’incognita, non sai mai con certezza ciò che ti aspetta”.
Fiorin non è un ciclista estremo, non è un fanatico dell’impresa: lo conosco e garantisco io. Anche per Ediciclo i suoi reportage a pedali riguardano ciclovie collaudate, tracciati storici, viaggi umani, umanistici e anche umanitari. Non sfoggia la maglia tecnica dlla Trek-Segafredo, ma con orgoglio quella verde del Pedale Veneziano 1913. Non esibisce occhiali da sole aggressivi, ma da vista con lenti trasparenti tipo docente universitario di Storia (materia in cui è laureato). Non ha quei fisici da scalatori anoressici, ma conta 93 chili da passista anche nel mangiare e bere. Danubio, Via Francigena, Romantiche Strasse: tanto per capirci. Ma a 60 anni non ha più resistito alla tentazione di una voglia, di un richiamo, di un ricordo delle note degli Inti Illimani o dei versi di Pablo Neruda. Pronti, via, alé.
E allora la Catedral de Marmol, raggiunta su una barchetta, uno spettacolo di carbonato di calcio in decine di grotte create dall’erosione delle acque. E allora le centinaia o forse migliaia di “animitas”, quegli altarini precari e coloratissimi che raccontano storie di devozione popolare. E allora la leggenda del Gauchito Gil, un po’ Robin Hood, un po’ anche tra Gesù Cristo e Giuseppe Garibaldi, bandito per amore. E allora anche la leggenda di Deolinda Correa, che si perse nel deserto cercando di raggiungere il marito, lei morì di sete, il figlioletto si salvò suggendo il latte della mamma. E allora l’Isla de los Muertos, con il suo cimitero eletto monumento nazionale, e il Portozuelo Ibànez, a 1105 metri di altitudine, la Cima Coppi. E allora quei cartelli che ricordano “non abbiate fretta, qui l’unica cosa che corre è il vento”. Se contrario, una faticaccia.
Alla fine è stata una faticaccia: 1186 i chilometri in 14 tappe. Un cicloviaggio “esaltante e duro, gratificante e appassionante”, concluso con un abbraccio tra padre e figlio. Come in una staffetta. E la prossima volta, non necessariamente sul ripio, a ruoli invertiti.
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