Di solito, mi confidò, se ne stava in fondo al gruppo. Per discrezione, per timidezza, per risparmiare le forze, o forse semplicemente perché, più di così, non poteva. Ma quel giorno – Giro d’Italia 1966, quarta tappa, Genova-Viareggio, 241 chilometri – sarà stata l’ispirazione, o l’istinto, o il destino, o forse semplicemente l’obbedienza a un ordine di scuderia, rincorse e riprese due corridori della Bianchi andati in fuga. “Toni Bailetti e Roberto Poggiali. Trovammo subito l’accordo. Poi l’accordo svanì. E più ci avvicinavamo al traguardo, più loro scattavano, a turno, prima l’uno, poi l’altro, per cercare di farmi fuori. Finché Poggiali scattò forte, così forte che Bailetti si staccò. Allora inseguii Poggiali, lo acciuffai e lo mollai, entrai per primo sulla pista di atletica, in terra rossa e battuta, e vinsi”. Senza alzare le mani al cielo. Ancora per discrezione o per timidezza o per mancanza di forze, o forse semplicemente per disabitudine.
Oggi, a Belluno, è morto Giovanni Knapp, l’unico bellunese che sia mai riuscito a vincere una tappa al Giro d’Italia. Un mese fa era caduto in casa: ricoverato in ospedale, non ce l’ha fatta a uscirne. Aveva 77 anni.
Bisnonni austriaci di Lienz, poi Mantova e Bologna, poi Belluno. “Io, figlio unico. Promosso alla terza avviamento, poi lavoro. La prima bici fu un regalo, avevo 14 anni. Era una Legnano verde oliva, da corsa. Me ne innamorai. Ci saltavo su e andavo in giro, da solo, sulle salite. La prima corsa nel 1961, a 18 anni, a Pedavena, tutti insieme, dagli allievi ai dilettanti, senza sapere come si facesse. Decimo, e primo della mia provincia. La terza corsa era già il campionato italiano allievi dell’Udace, a Firenze, volata, terzo. E un anno dopo il campionato italiano allievi dell’Uvi, l’Unione velocipedistica italiana, antenata della Fci, la Federazione ciclistica italiana, volata, primo Gianni Motta, io secondo”.
Andava bene in salita, se la cavava in volata, soffriva la pianura, Knapp. “Professionista alla fine del 1965, nella Vittadello. Il debutto al Giro del Veneto: la pioggia, la strada bagnata, una caduta proprio davanti a me, caduto anch’io, e ritirato”. Il 1966 è l’anno della vittoria al Giro d’Italia, ma anche del sesto posto al Giro dell’Appennino, dell’ottavo al Giro d’Abruzzo, del decimo alla Corsa di Coppi, del dodicesimo al Giro del Lazio, del tredicesimo al Giro di Romagna. “Non avevo la mentalità del gregario. Perché aiutare il capitano se il capitano andava più piano di me? Se stavo bene, cercavo la fuga. Se non stavo bene, cercavo di andare all’arrivo”.
Quei Giri del Piave: “Si arrivava a Belluno, nello stadio, anche qui la pista in terra battuta, e le curve con la paura di scivolare. Ma a forza di pedalarci, ci presi una certa pratica. Tre volte, e tre volte terzo”. Quelle salite: “Cansiglio, Nevegal, Falzarego, Tre Croci, Duran. Cercavo le stradette, anche sterrate. Da solo. I miei colleghi dicevano che ad allenarsi con me, sulle mie salite, facevano più fatica che in corsa, e così non venivano”. Quegli allenamenti: “Partivo la mattina tornavo la sera. Anche 200 chilometri. Sulla bici una borraccia, nelle tasche i palmer. Per bere mi fermavo alle fontane, acqua fresca, per mangiare entravo in un bar, un panino a metà strada”. Quella vita: “Da corridore, ma d’inverno andavo a ballare e bevevo qualche bicchiere di vino”. Quella cotta: “Giro d’Italia del 1966, terzultima tappa, la Moena-Belluno, ci tenevo. Invece rimasi a piedi per un guasto, aspettai l’ammiraglia, e dopo che il meccanico aggiustò la bici, inseguii il gruppo dei migliori e lo raggiunsi, ma quando scattò Gimondi, caddi dalla sella. Non ne avevo più”. Quell’altra caduta: “Alla Vuelta del 1967. Si correva in aprile. Battei il ginocchio, continuai fino all’arrivo, e all’arrivo il ginocchio era gonfio, mi dissero di continuare, il giorno dopo arrivai con un’ora di ritardo, soffrendo le pene dell’inferno, e allora dissi che mi sarei tornato a casa per guarire e poi correre il Giro, invece per punizione non mi fecero fare il Giro e allora appesi la bici al chiodo”.
Lo avevo incontrato la prima volta alla “Bici al chiodo”, a Campagnola Emilia, nel gennaio 2017. Domande e risposte, in quella rimpatriata vociante, tra piatti di cappelletti e fette di salame. Si raccontò. Knapp che in tedesco significa “a fatica”, “a malapena”, “quasi”, che i compagni chiamavano Johnny e che Gimondi prendeva in giro perché aveva i capelli alla Beatles, Knapp che non curava l’abbigliamento, che non si faceva i peli, che portava i cinturini lunghi, Knapp che poi ha fatto il fotografo, con tanto di laboratorio e camera oscura, e che poi aveva un negozio di dischi, anche d’importazione, dai Pink Floyd ai Dire Straits. Knapp, che non alzava le mani al cielo quando vinceva: “Mani sul manubrio, pedalavo fin sulla linea dell’arrivo, però aprivo la bocca, per la contentezza”.
Lo ricontattai per presenziare - ospite d’onore, profeta in patria – al festival della bicicletta di Feltre nel marzo 2018. Domande e risposte, sulle sue strade, davanti alla sua gente, ma a malincuore mi disse di no. Non se la sentiva. Come sempre: per discrezione, per timidezza, non per risparmare le forze ma per evitare le emozioni. Era fatto così, Knapp. Era fatto bene.
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