Ha dovuto aspettare più del previsto, ma Enrico Zanoncello è riuscito a raggiungere il primo obiettivo della sua carriera: passare professionista. Non lo si può definire un giovanissimo, o almeno non si può farlo nel ciclismo precoce di questi tempi, ma a 23 anni il nuovo velocista della Bardiani-CSF-Faizanè può finalmente cominciare a costruirsi una carriera tra i grandi.
«Un sogno che si avvera – ammette Zanoncello -. Sono passato un anno più tardi di quanto avrei sperato, già l'anno scorso avevo alcune buone trattative, ma nessuna è andata a buon fine. Alla fine, l'importante era riuscirsi a guadagnare questa opportunità. Quando ho cominciato tra gli U23 la gran parte degli atleti passava professionista dopo quattro anni di permanenza nella categoria, mentre da un paio di anni a questa parte un buon numero fa il salto già dopo due anni. Una tendenza che non capisco molto, perché se ci sono quei due/tre fenomeni che meritano di passare da giovanissimi, tanti altri fanno il salto sulla fiducia, senza aver dimostrato chissà quali cose tra gli U23».
Tre anni in Colpack, anzi due, visto che il primo, il 2016, lo ha costretto a restare in infermeria tutto l’anno, prima con la rottura di un piede e poi una doppia frattura della clavicola in poco tempo. Gli ultimi due anni, uno da U23 e uno da Elite, li ha fatti con la Zalf-Fior, portando a casa nove vittorie: «Non ho mai pensato di smettere, il professionismo era il mio grande obiettivo e ho fatto di tutto per raggiungerlo – prosegue il veronese di Isola della Scala -. L'anno più complicato è stato il terzo, quando ho ottenuto tanti piazzamenti ma non riuscivo a vincere, con il morale che ne risentiva. I tre anni in Colpack non sono stati particolarmente soddisfacenti, più per colpa mia, perché mentalmente non ero ancora maturo e non facevo una vita da corridore, ma quando sono passato alla Zalf ho capito che non potevo più giocare».
Zanoncello è un velocista moderno, o almeno spera di diventarlo, e sogna di vincere sui Campi Elisi al Tour de France. «Al giorno d'oggi secondo me non si può più parlare di velocista puro, perché anche in una tappa considerata "piatta" spesso ci sono diversi metri di dislivello. In salita ho fatto notevoli progressi negli ultimi due anni, ho perso quei 3-4 chili che mi hanno permesso di arrivare a giocarmi anche corse più mosse. Ovviamente coi professionisti sarà un'altra cosa, dovrò trovare il giusto bilanciamento negli allenamenti tra salite, e soprattutto resistenza, e volate per non perdere potenza. Per esempio, invece che fare un allenamento con focus solo per lo sprint, faccio prima una bella uscita di 5 ore e poi provo le volate. Ormai è più importante arrivare a fare la volata rispetto al picco di potenza in sé, che era utile solo per le ormai inesistenti gare totalmente pianeggianti in circuito. Se arrivi alla fine più fresco degli avversari, puoi vincere anche con un picco di potenza minore».
Con la formazione dei Reverberi avrà certamente l’occasione per ritagliarsi qualche spazio personale, visto che oltre a lui di velocisti veri e propri ci sono solo Giovanni Lonardi e il giovanissimo Tomas Trainini, e già alla Vuelta al Tachira di fine gennaio, salvo spiacevoli risvolti causa covid, proverà ad andare a caccia di un buon risultato. «Ho fatto qualche mese da stagista con la Cofidis per avere qualche giorno in più di corsa sulle gambe e cominciare a prendere confidenza con il mondo dei professionisti. C'era anche la possibilità di passare con loro, ma vista la complessità dell'anno ho scelto la Bardiani-CSF-Faizanè che mi ha dato subito certezze – ammette il veronese -. In Venezuela mi hanno già detto che sarò io il velocista del team e non nascondo che mi piacerebbe provare a portare a casa subito qualche buon risultato. Ovviamente dovrò fare molta esperienza quest'anno, ma l'obiettivo è quello di vincere almeno una corsa, non importa dove».
Su una cosa si può stare tranquilli, il suo mentore è quello giusto: Elia Viviani, suo concittadino, nonché cugino. Se sei un velocista, è difficile avere un modello migliore: «Ho iniziato a 6 anni e intorno a me avevo tutti che andavano in bici, mio fratello e i miei cugini Viviani. Era inevitabile che cominciassi anch'io. In particolare, sono cresciuto con Attilio Viviani, che ha appena un anno in più di me, mentre Elia è sempre stato un po' la guida, il modello da seguire. Il mio idolo invece era Mark Cavendish, perché sono cresciuto vedendolo sfrecciare al Giro d'Italia e Tour de France». Per quanto riguarda Enrico, l’importante è che sfrecci in bicicletta, e che lasci stare le moto: «Sono un grande fan di Valentino Rossi, adoro la MotoGP. Avevo una moto, poi a 17 anni son caduto e mi sono distrutto un ginocchio. Da quel momento non mi hanno fatto più salire in moto. E forse è meglio così» ha concluso ridendo.
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