Mio Covid con polmonite doppia, tanto tempo da isolatissimo per seguire alla televisione lo sport e dunque percorrermi una sorta di seconda vita giornalistica, in mezzo ad orrori vissuti personalmente che non terrò per me ma scriverò, anzi da giornalista vero e pazienza se all’antica soprattutto descriverò (sempre Covid permettendolo, permettendomelo). Adesso voglio scrivere di ciclismo, il mio primo sport di lavoro grande, ciclismo alla televisione, ciclismo vecchio e ciclismo di attualità, registrazioni di pellicole piovose e splendide riprese di oggi, dal vivo. In questi giorni ho, si capisce, visto, rivisto, stravisto tanto. Una precisazione: sono stato nuotatore agonista, l’unica volta che ho tentato una garuccia ciclistica per giornalistucoli stracchi e velleitari sono caduto dopo pochi metri, alla presenza illustre di Nino Defilippis detto il Cit (credo si fosse a Pinerolo, un luogo sacro della bicicletta biancoceleste), lussandomi una spalla e amen col ciclismo praticato.
Alcune notazioni, in quello che è il casino organizzato in cui sto vivendo questi tempi orrendi e speciali, con alla base la giustificazione massima, l’alibi perfetto (Covid 19 con polmonite doppia!) più grande che possa esserci se straparlo, se scrivo da matto. Appunto. Trattasi comunque di un articolo speciale, unico credo: questo.
Primo: i ciclisti sono davvero bravi grandi attori, hanno un copione antiquo e producono pure il giusto di commedia dell’arte. Il passaggio vittorioso del traguardo ha un rituale di gesti (e di non gesti, anche: Coppi mai alzò le braccia, un braccio da vittorioso, e dire che vinse tanto, e vinse grosso) che possono sembrare sempre eguali ma sempre offrono qualcosa, qualcosina di nuovo.
Vasti o liofilizzati segni di croce, occhi al cielo a dedicare salutare commemorare ringraziare (Dio, dei e uomini e sponsor), baci, gesti per la folla anche se non c’è, semplicità anzi essenzialità da Actor Studio o invenzioni clownesche, guittesche alla Peter Sagan, sempre qualcosa di speciale, all’opposto del calcio in cui ogni festa di gol è eguale all’altra, e l’emozione casomai è temere (o sperare?) che, saltando addosso a chi ha segnato, una volta o l’altra non gli si rompa una vertebra.
Secondo: davvero mentre il calciatore che festeggia mi fa pensare che il suo cervello (o cosa che ancora c’è nella testa) stia allineando i guadagni conseguenti, il ciclista che festeggia mi fa pensare soprattutto a lui, il pedalatore felice, che sta “parlando” con gli amici del bar al paese, con la donna sua ed i figli suoi, magari persino con papà e mamma, e pensa alla rata del mutuo superata.
Terzo: per me è un miracolo permanente che dopo il traguardo il vittorioso non cada, con quello che fa dimenandosi sulla bicicletta, zigzagando, schivando i fotografi, cercando e toccando chi gli pedala accanto, andando a puntare il direttore sportivo, l’amico, o voltandosi per aspettare il compagno di squadra in arrivo e ringraziarlo degli aiuti. Ma a proposito di miracoli: ogni volata di massa per me è la paura che accada qualcosa di balordo, una supercaduta di molti con sangue sull’asfalto, sento sempre il ghiaccio nella schiena, di solito va tutto bene, alla prossima.
Quarto: l’importanza del paesaggio, del fondale è somma. Chiunque siano quei ciclisti, vanno sempre per strade straordinarie in posti straordinari. Il paesaggio per i calciatori è lo stadio, pieno o vuoto non importa, sai che squallore
Non hanno assolutamente senso logico (oh Bulbarelli) le proposte anzi le imposizioni di vecchie gare di cui a priori non frega più niente a nessuno, ri-ri-rivedere Pantani ad Oropa, una corsa nelle Fiandre, quel pavé brutto e cattivo, Bartali e Coppi a Briançon. Però ci sta sempre qualcosa di magico, lo avevo già rintracciato e goduto prima del mio Covid. In qualche gara mi accade eccome di frequentare addirittura quello che il mio fratello maggiore e maestro in giornalismo Bruno Raschi definiva “il mistero dell’attesa”, tipico del ciclismo d’antan non anticipato dalla bestiaccia televisiva che tutto fa sapere in anticipo: chi sbucherà per primo da quella curva? Magari è un Van Kualcosen, un Van Piripakkien belga qualsiasi, ma mi sta bene e mi dico “toh, ma guarda un po’”.
E ci scappa un articolo (articolooo?) come quello che finite qui di leggere.
da tuttoBICI di dicembre
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