Erano gli anni dei “Blues Brothers” e di “Blade Runner”, ma anche di “Batman” e della “Sirenetta”. Erano gli anni del “Thriller” di Michael Jackson e del “Born in the Usa” di Bruce Springsteen, ma anche di “Vado al massimo” di Vasco Rossi e “Vamos a la playa” dei fratelli Righeira. Erano gli anni del primo cuore artificiale e dei primi personal computer, ma anche della prima mountain bike e delle prime musicassette. Erano gli anni dell’Italia campione del mondo di calcio, ma anche delle Olimpiadi boicottate. Erano gli anni Ottanta.
Erano gli anni di Francesco Moser e Beppe Saronni, ma anche di Giancarlo Perini e Franco Chioccioli, Stefano Tomasini e Johan van der Velde, Aavo Pikkus e Sergei Soukhoroutchenkov, Jeff Bernard e Phil Anderson. Erano gli anni Ottanta. E Simone Basso ha ricercato, analizzato, scandagliato, liofilizzato (si può dire bifilizzato?), infine raccontato quel decennio oltre Moser e Saronni: “In fuga dagli sceriffi” (Rainbow Sports Book distribuito da Amazon, 174 pagine, 23 euro l’edizione cartacea, 9,99 quella elettronica, con la prefazione in inglese e in italiano di Herbie Sykes).
Se il ciclismo vive di dualismi e duelli, e se – come scriveva Dino Buzzati – Coppi e Bartali furono Achille ed Ettore, allora Moser e Saronni sono stati Don Camillo e Peppone, la Juve e l’Inter, Tex e Mephisto, Diabolik e Ginko, alla loro maniera forse i Beatles e i Rolling Stones. Ci si schierava: o di qua o di là, o bianco o nero, o con o contro. Ma c’era altro, ma c’erano altri. E Basso li ritrova, li riscopre, li rianima, li resuscita, li rilancia.
Di Laurent Fignon, Basso ricorda come “salutò il gruppo al sorgere della ‘leggendaria’ EPOlandia, 1993: al Tour si sfilò sul Restefond, in mezzo agli ultimi, osservando la corsa da dietro. Lui che passò la carriera nel gruppo di quelli davanti. Un momento, un gesto, di un corridore diverso: fu l’ultimo dei mohicani in uno sport sempre più estremizzato e specialistico”.
Di Greg LeMond, poi convinto detrattore del compatriota Lance Armstrong, Basso scrive che “divenne il precursore involontario (?) del ciclismo anni Novanta; quello che porterà al prototipo armstronghiano di corridore monouso, all’insegna di una specializzazione esasperata e avvilente”.
Di Luis Herrera, “El Jardinerito”, Basso sottolinea: “Che fosse un fenomeno delle salite apparve subito evidente: leggero, piccolino, con una muscolatura da fondista etiope... Convinto con i mezzi più antichi e sicuri (le corse non si vincono o si perdono: si comprano o si vendono), divenne alleato di Bernard Hinault”.
Basso vola alto soprattutto quando riabilita gli “scapigliati”. E a proposito di Paolo Rosola, velocista da Giro d’Italia, ricorda le quattro vittorie alla Coors Classic, “una più bella dell’altra: la seconda con un assolo irresistibile che relegò i migliori a quasi quattro minuti, la terza in una frazione di mezza montagna”, tanto da indurre l’organizzatore del Giro del Colorado a puntare su di lui per il Mondiale di Villach nel 1987. Alla notizia che Rosola non avrebbe corso, domandò: “Davvero in Italia ci sono quindici corridori più forti di lui?”.
“In fuga dagli sceriffi” è un libro valoroso perché scritto (bene) senza bugie, senza pudori, senza paure, senza compromessi. E’ un libro coraggioso perché pubblicato in proprio, o quasi. Ed è un libro ricco perché salva storie dall’oblio. Come quella di Emilio Ravasio, “che scortando Urs Freuler in rosa cadde e finì in coma. Morì qualche settimana dopo, il 28 maggio 1986, e se ne andò in un silenzio monastico, saturo di dolore”. E come quella di Carlo Tonon, “che nell’84, intruppato negli ultimi di una tappa alpina del Tour, da La Plagne a Morzine, fu travolto da un cicloturista distratto: non solo non tornò più in sella, ma nemmeno riemerse nella vita di tutti i giorni dalla pozza della depressione”.
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