Era una nuvola. Cloud, per dirla nell’era 2.0. Una nuvola di parole orali e scritte, radiofoniche e televisive, poetiche e cinematografiche. Una nuvola che ci ha accompagnato, dall’alto, guidandoci e proteggendoci, svelando e rivelando.
Stamattina, all’alba, nella sua casa di Trevignano sul Lago di Bracciano, in via Londra, fra pini e ulivi, è morto Sergio Zavoli. Sergio Wolmar Zavoli, all’anagrafe, con quello spirito bizzarro romagnolo illuminato dal secondo nome, nato a Ravenna il 21 settembre 1923. Una nuvola quasi secolare. Lo confidava, riconoscente: «Quante cose sono successe, quante persone ho conosciuto, quante situazioni ho vissuto. Io sono stato un uomo fortunato: ho fatto quello che volevo fare, quello che amavo fare. Ricordo padre David Maria Turoldo. Registravamo un programma prima che morisse sapendo di morire. Disse: ‘Ogni giorno che ci resta da vivere è un giorno nuovo mai vissuto da nessuno prima sulla Terra’».
Giornalista, dalla gavetta alla presidenza della Rai, come dire da chierichetto a papa, Zavoli ha attraversato non solo il Novecento (e un po’ del Duemila), ma anche tutti i mezzi, tutti gli strumenti, tutte le possibilità e tutti i ruoli della comunicazione. Con passione, con fiducia, con eleganza, con competenza, con autorevolezza. La sua prima avventura fu un giornale parlato, e già qui c’erano ricerca, sperimentazione, avanguardia: si chiamava “Publiphono” ed era finanziato da un bar, il Caffè Dovesi, che voleva reclamizzare la cioccopanna, una cioccolata in una tazza particolare. Era il 1946, a Rimini, bombardata: e Zavoli raccontava la partita di calcio al telefono, con gli altoparlanti in giro per la città. Nel Rimini, in porta, quello che sarebbe stato ribattezzato, per il coraggio nelle uscite, Kamikaze: Giorgio Ghezzi, poi Inter, Genoa e Milan. E in porta giocava anche il giovane Zavoli: «La porta – spiegava – mi sembrava la metafora del calcio, il luogo cruciale e il momento memorabile della partita, dove tutto prendeva o perdeva il suo senso, sciogliendo ogni dilemma».
Parlava come un libro stampato, Zavoli. La sua vita professionale è stata piena, ricca, completa. Cominciò in Rai, alla radio, nel 1947. Nel 1962 passò alla tv, sempre Rai, e ideò il “Processo alla tappa”, un programma che seguiva il Giro d’Italia, ribelle e garbato, rivoluzionario e sentimentale, scandaloso (come quando Felice Gimondi si fece scappare l’espressione «è successo un gran casino») e romantico. Le lezioni più convincenti, sosteneva Zavoli, le doveva proprio al ciclismo, e in particolare ai gregari: «I gregari mi parlavano della vita in generale, i campioni della loro vita in particolare». Una bella differenza. Fu così che lanciò umili pedalatori come «Italo Mazzacurati, bolognese, lo spirito allegro del gruppo, che con un’invenzione scompaginava la carovana. La sua specialità era navigare in fondo al plotone e imprigionare qualche capitano rimasto attardato. La chiamava: la ragnatela». Fu così che immortalò modesti fuggitivi come «Lucillo Lievore, vicentino, che un giorno guadagnò 17 minuti sul gruppo. Sarà stato per il distacco, immenso, o per il paesaggio, fatto di calanchi e terra simile alla pomice, che quella fuga solitaria divenne epica, anzi, metafisica. Lievore temeva che il gruppo lo riprendesse. Ma la cosa straordinaria era che davanti a lui c’era un altro corridore, Pietro Scandelli, lombardo, Lievore lo sapeva, io no. E alla fine tutto questo mi sembrò un’altra metafora della vita: si può lottare anche per arrivare secondi, o terzi, o ultimi, o fuori tempo massimo. Perché il mondo è fatto di gente che sputa sangue pur di farcela».
Fu così che Zavoli avvicinò e si avvicinò agli eroi della strada. Anche a Marco Pantani. Lo intervistò due volte: la prima volta Pantani non si era piaciuto, chiese una seconda possibilità, e la seconda fu quella buona. Zavoli, alla morte del corridore, avrebbe scritto: «E’ possibile che nessuno si fosse accorto, diciamo così, che quel ragazzo inebriava anche le montagne? E che, dopo essersi tutti inebriati, toccasse solo a lui saldare quel conto? Certo la morte scioglie ogni dilemma. Ma altro che Pirata: ha pagato tutto e più di tutti. Non capita spesso nei nostri mari».