Canottiera forse celeste o azzurra. Pantaloncini corti bianchi con le bande laterali forse tricolori. Mani che impugnano il manubrio (dove sembra legato un mazzettino di fiori di plastica) di una bici da corsa. Piedi nudi inseriti nelle gabbiette. Sguardo divertito rivolto al fotografo. E un irresistibile sorriso cinematografico.
Non un attore, né un corridore, ma un pugile. Giulio Rinaldi aveva 29 anni, era un mediomassimo, aveva conquistato il titolo europeo, qui – estate 1964 - pedalava su una strada in Ciociaria, un po’ per tenersi in forma, un po’ per fare scena. La boxe era un’arte nobile praticata da plebei. “Giulione” era di Anzio (anzi, “portodanzese”), aveva campato da bagnino, portuale e muratore, ma il ring lo aveva elevato a campione, personaggio, protagonista.
Quando fu escluso ai quarti di finale dell’Olimpiade di Melbourne 1956 perché non resistette alla tentazione di mangiare e superò i limiti del peso. Quando, battuto Sante Amonti per il titolo italiano, fu invitato al “Musichiere”, Mario Riva gli domandò quale fosse stato il momento in cui aveva capito di aver vinto, e lui rispose “quando l’ho visto a terra con gli occhi da pesce fracico”. Quando Mario Riva gli chiese di spiegarsi meglio, e lui disse “hai mai visto un pesce esposto in un negozio di Roma, messo là senza cura, abbacchiato, morto? Ecco, guardalo nell’occhi, quelli so’ l’occhi del pesce fracico”, e infine sentenziò “il pesce bono c’è solo ad Anzio”.
Quando al Palasport di Roma sconfisse il mitico Archie Moore, campione del mondo, ma senza il titolo in palio. E quando al Madison Square Garden fu sconfitto dall’ancora mitico Archie Moore, stavolta il titolo era in palio. Quando il manager Gigi Proietti lo pregava di girare intorno al mitico Archie Moore e invece lui si faceva sotto, andava avanti, lo attaccava, colpendolo e scoprendosi. Quando però alla vigilia di questo match contro il sempre mitico Archie Moore si era fratturato il setto nasale, colpa di un pugno, che invece di essere finto e televisivo si rivelò autentico e inaspettato, del proprio sparring partner. Quando a Dortmund abbatte il tedesco Gustav Scholz alla nona ripresa, ma l’arbitro lo squalificò (retroattivamente) per un presunto colpo inferto sotto la cintura nella seconda ripresa. Quando a bordo ring ad ammirarlo c’erano Alberto Sordi e Delia Scala, Raimondo Vianello e Renato Rascel. E quando lui partecipò a film con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, Maurizio Arena e Lando Buzzanca.
Rinaldi fece parte di quella grande scuderia polisportiva finanziata da Giovanni Borghi, i marchi Ignis e Fides che avevano illuminato anche le strade del ciclismo, da Baldini a Nencini, da Pambianco a Poblet, da Maspes a Gaiardoni, e i palazzetti della pallacanestro, da Flaborea a Gavagnin, da Meneghin a Vittori. Un libro – “Il grande Giulio Rinaldi e altri assi del pugilato Anziate” di Patrizio Colantuono – ricorda le sue gesta. E anche quella pedalata ciociara. Con i piedi nudi prigionieri nelle gabbiette.
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