Quanto mi piace Sagan quando corre. Quanto mi piace Sagan quando non corre. Quanto mi è piaciuto poco tempo fa, quando nel pieno della quarantena e di tutte le mode collaterali, prima fra le altre quella di gareggiare virtualmente, se ne è uscito con un commento a prova di equivoci e di interpretazioni. Domanda: “A proposito di rulli, ti vedremo partecipare ad uno dei numerosi appuntamenti virtuali che si stanno susseguendo in rete?”. Risposta: “No. Io sono un corridore vero, non un corridore virtuale”.
Ci sono parole semplicissime che meriterebbero standing ovation fantozziane, una due tre ore di applausi e di cori scroscianti. Per la miseria, almeno uno che provi ad alzare il dito e ad andare controcorrente, a costo di finire emarginato tra i vecchi, i superati, gli obsoleti. I fuori tempo massimo della vita.
Naturalmente, tutto il mio appoggio nasce essenzialmente proprio da questo, dal tipo che antropologicamente è Sagan nel panorama mondiale dello sport: non un vecchio rintronato legato all’epoca di Coppi e Bartali, non un ammuffito nostalgico che pedala soltanto nelle eroiche con la maglia di lana doppia e i tubolari a tracolla di traverso, facendosi crescere improbabili baffoni da Belle Epoque, no, proprio tutto il contrario, Sagan è al passo con i suoi tempi, anzi piuttosto avanti, perfetto esemplare di ragazzo d’oggi che guarda a domani senza rimpiangere ieri.
L’hanno eletto emblema del nuovo ciclismo proprio i giovani, ne hanno fatto il testimonial esemplare di cosa si intenda per ciclismo che interpreta il gusto e i costumi d’oggi, compresa una certa stravaganza di look e di atteggiamenti. E allora cari devoti del ciclismo virtuale beccatevi questa: il nuovo che proprio non sopporta un certo genere di nuovo.
Ma sì, diciamolo: grazie Sagan. Finalmente sdoganata la possibilità di dire apertamente basta, questa moda di competere sui rulli, peggio dei criceti che almeno corrono dentro una ruota, è una vera boiata, una passione per gente deviata. Capisco che in certe situazioni, vedi quarantena, la gente sia obbligata ad adattarsi, trovando qualche forma minima di allenamento. Ma fermiamoci qui. Si fa perché non c’è altro. Ma da qui a dire per la miseria che bello, wow, dai, organizziamo una bella corsa, con il vincitore e con gli sconfitti, con le medie orarie e con i watt, magari alla fine ci ritroviamo pure a preferire questo genere di invenzione rispetto alla tradizionale e monotona strada d’asfalto, fuori, all’aria aperta, con tutto quel cielo sopra e quell’orizzonte là davanti, magari nella depressione del verde di campagna, ai bordi di un bosco... Da qui a mettere in piedi un ambaradan in similciclismo, con tanto di febbre generale e imitazione made in China delle gare storiche, mi sembra ce ne passi. E poi per fortuna a un certo punto arriva Sagan, non il geometra di Cinisello, a dire una cosa biblica ed elementare: non c’entro nulla con questa cosa, io sono un corridore vero, non virtuale. Dedicato a quelli virtuali, tra i quali parecchi che sono virtuali pure quando si corre davvero.
Approfittando di Sagan, voglio farla ancora più lunga. Voglio dirla tutta. Voglio dire che questa delle gare virtuali fa benissimo il paio - restando nell’orto ciclismo - con le gare elettriche, il più grande controsenso del secolo, perché se mi sta bene che l’assistita aiuti anziani e cardiopatici, non posso accettare che diventi strumento di competizione e di agonismo, ruffiano surrogato della leale e diretta sfida tra esseri umani, al netto magari pure della farmacia.
Voglio persino debordare, con il discorso. Voglio allargarlo fino all’infinito. Una volta e mai più. Voglio dire che persino in tempi di pandemia e di segregazione coatta è confermatissima una tendenza ormai conclamata nei tempi normali. L’idea cioè che il finto possa piacere quanto e anche più del vero. Che l’apparenza valga e conquisti quanto e anche più della sostanza. Certo, andrà tutto bene. Prestissimo torneremo così.
da tuttoBICI di maggio