Una Bianchi modello R, con un telaio da 62, parafanghi a schiena d’asino e gomme Pirelli. E sul “patacchino” un’aquila smaltata su fondo blu. Una bicicletta di gran lusso. Una spiciula da sciur.
E’ quella del commissario Carlo De Vincenzi, sede in piazza San Fedele a Milano, soprannome “il poeta del crimine”. In bici, ma anche a piedi o in tram, De Vincenzi vive la sua città, la annusa e la governa, la pedala e la naviga. Siamo nel Ventennio, in un clima di tensione, fra soprusi e prepotenze.
De Vincenzi, per risolvere il caso di una donna assassinata, si affida ai suoi agenti speciali: uno specialista in furti, uno specialista in falsificazioni, uno specialista in pugilato... Perché se il suo ambiente è la “scighera”, la nebbia che sale dall’acqua o dalla terra, il suo mondo è la “ligéra”, la malavita milanese. E solo il “poeta del crimine” riesce a redimere questi uomini dotati di un particolare senso della giustizia.
Luca Crovi comincia “L’ultima canzone del Naviglio” (Rizzoli, 240 pagine, 18,50 euro) con un ladro di biciclette. E’ il 2 aprile 1922 e la città si è svegliata all’alba per assistere alla partenza della Milano-Sanremo: 67 corridori al pronti-via dal Naviglio Pavese, sarebbero dovuti essere 68 se un “lader” non avesse approfittato della sosta di un corridore a una fontanella davanti al Musocco per riempire la borraccia. “Lassa sta la spiciula, slandrun”: il primo avvertimento va a monte. “Uè, gandula, fa no el pirla e lassa sta la spiciula”: il secondo cade nel vuoto. “Ehi, che vuoi fare?”: anche il terzo si rivela inutile. “Malnatt d’un malnatt, se ti prendo ti concio per le feste!”: ormai è troppo tardi. E “la tenuta da corsa di certo non lo alleggeriva. Indossava un’ampia maglia che gli copriva le braccia. Un enorme pettorale con il numero 28 scritto in nero gli serrava il torace. Lunghi calzoni gli fasciavano le gambe. Era una protezione destinata a ripararlo dal freddo durante la prima parte della giornata, almeno fino a quando non avesse raggiunto il punto di rifornimento di Ovada, davanti al Caffè Trieste, dove era previsto che i ciclisti si sarebbero cambiati, togliendosi gli abiti pesanti usati per l’avvio della corsa. Lì avrebbero sostituito le loro biciclette con altre dotate di rapporti più agili e adatte ad affrontare il passo del Turchino”. Vincerà, a sorpresa, Giovanni Brunero, anche perché il favorito Costante Girardengo, “che stava rimontando dietro di lui”, in volata centra in pieno un addetto alla sicurezza in mezzo alla strada. Quanto alla Maino, sarebbe finita a Baggio senza nemmeno dover trattare sul prezzo.
Nella sua indagine, De Vincenzi si muove fra “spiciulisti” (“La ligéra ciamava inscì i lader de biciclett”) e “lenoni” (magnaccia, protettori), fra “prestinee” (panettieri) e “caldarrostee”, fra Arturo Toscanini e Ettore Bugatti, fra il Generale Inverno e la Bella Gigogin. E Crovi passa da fatti di cronaca e documenti autentici a invenzioni fantasiose e falsi letterari, trasformando le pagine del libro in scenografie teatrali o riprese cinematografiche. E ai ladri di biciclette regala un decalogo. Primo comandamento: “Ciularne una alla volta”. Secondo: “Mai ritornare indietro”. Terzo: “Mai sperare di acchiapparne una seconda nella stessa giornata e nello stesso posto”. Quarto: “Mai nemmeno provarci, anche se la tentazione era forte e gli capitava di trovarne più di una incustodita”. Quinto: “Mai fermarsi a osservarle per troppo tempo”. Sesto: “Mai aspettare troppo a lungo”. Settimo: “Tenersi lontani dall’Isola, dal Bottonuto, dal Ticinese”. Ottavo: “Mai azzardarsi a rubarne una ai professionisti della ligéra”. Nono: Mai ciularne una davanti alla sede dei ghisa”. Decimo: “Mai rivenderne una ai ciclisti”. Non è finita: “Mai sottrarne una sui Navigli”, “Mai rubarne una a chi la usava per mestiere”...
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