Al Giro d’Italia 2017 staccò Tom Dumoulin di 5 ore, 48 minuti e 40 secondi, che a una media di 39,843 all’ora significano più o meno 225 chilometri. Al Giro d’Italia 2018 staccò Chris Froome incredibilmente quasi con lo stesso identico tempo, 5 ore, 48 minuti e 37 secondi, tre secondi in meno ma cinque chilometri in più, perché a una media di 40,181 all’ora corrispondono più o meno a 230. Con un dettaglio: li staccò dalla parte apparentemente sbagliata, precedendoli dietro, non davanti. E conquistando così per due Giri consecutivi l’ambitissimo ultimissimo posto. Maglia nera. Anzi: due maglie nere consecutive. Straordinario.
Giuseppe Fonzi: un nome che profuma più di falegnameria che di officina, un cognome che sa di giorni felici (“Happy Days”), giubbotti di pelle e pollici alzati più che di settimane faticose, body attillati e mani aggrappate al manubrio. Giuseppe Fonzi: il Malabrocca del Duemila, il Carollo 2.0, il Pinarello d’Abruzzo. Giuseppe Fonzi: sei anni da professionista, stamattina si è sfilato definitivamente il dorsale. Cambia vita. Giù dalla bici, piedi a terra, una nuova partenza e tanti nuovi traguardi.
Fonzi in versione Fonzino sembrava un predestinato. Aveva buon sangue: “Papà zii, nonno, tutti corridori, fino a dilettanti”. Prometteva benissimo: “A due anni andavo su una biciclettina senza rotelle”. Proseguiva meglio: “La mia prima bici da corsa a sette anni, fucsia e azzurra”. Aveva le idee chiare: “Fin da piccolo ho sempre voluto fare il corridore”. Poi l’impatto con il mondo del ciclismo: “La prima corsa, in provincia di Teramo. Mio padre si raccomandò di prestare la massima prudenza, ché sarei potuto cadere. Lo ascoltai con attenzione, e la prima curva feci cadere una decina di avversari”. Tanta passione sarebbe stata, prima o poi, ripagata: “Alla fine di quell’anno, categoria G2, finalmente davanti a tutti, primo, da solo”.
Wikipedia riporta tre vittorie d’altri tempi: la Piccola Tre Valli Varesine da junior nel 2009, il Gran premio 60° Fondazione US Cavrianese nel 2012, il Trofeo Città di Bevagna nel 2013. Da Under 23 ha vestito maglie prestigiose, Colpack e Vini Fantini-D’Angelo, da professionista è rimasto fedele alle squadre di Luca Scinto (da Vini Fantini-Nippo a Neri Sottoli attraverso Southeast e Wilier Triestina). Ha corso tutto il calendario italiano, per quanto concesso a una Continental, ma anche le classiche del Belgio (due ritiri al Fiandre) e soprattutto in Asia, collezionando fughe, piazzamenti e avventure. Allegro, spiritoso, autoironico, amava raccontare di quella volta in cui si confuse: “Successe proprio al Giro d’Italia. Andai in fuga davanti, e non dietro, cioè dalla parte che tutti considerano giusta. Mi chiesi che cosa ci facessi lì. Quando il gruppo mi riprese, ripresi anche la mia dimensione e la mia posizione”. Ultimo, appunto.
Ma gli ultimi sono i primi: basta rovesciare la classifica. E’ un punto di vista più che un punto di arrivo. E poi non c’era quel capellone, quel rivoluzionario, quel visionario che, sentendosi un dio, beatificava proprio gli ultimi? Tant’è vero che Fonzi fu trattato proprio come un dio il giorno in cui, ospite d’onore, celebrato e osannato, giustamente valorizzato, partecipò a Ferrara al Festival del ciclista lento, magico paradosso inventato da Guido Foddis.
Nel suo addio, affidato a Instagram, Fonzi suona filosofico (“A quasi 29 anni si capiscono tante cose, si hanno priorità che prima non esistevano e ho il bisogno di stare bene, quindi un bel taglio netto e si azzera tutto!”), ecumenico (“Mi sento in dovere di ringraziare i miei genitori che hanno fatto l’impossibile per non farmi mancare mai nulla, mio fratello che c’è sempre, la mia compagna, i miei amici e tutte quelle persone che mi scrivono, o che mi hanno urlato nelle gare”), anche polemico (“Ringrazio anche quelli che hanno remato contro di me, e li ringrazio perché ho capito tanto anche da loro, e tranquilli tutto torna, prima o poi”).
Ciao, vecchio Fonzi, “last but not least”, e sempre primo grazie a una capriola, a un testacoda, a una rovesciata.
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