Dopo le inevitabili critiche iniziali risalenti al 2014 e comuni ai CT di tutti gli sport di questo mondo, specialmente quando non riescono a mettere in brevissimo tempo a pieno regime vincente le squadre e i campioni a loro affidati, il tecnico della nazionale italiana di ciclismo, Davide Cassani è riuscito a realizzare, insieme ai ragazzi da lui selezionati e diretti, un'annata che merita solo applausi. Un dominio assoluto nei vari campionati europei tra strada e crono, con Elia Viviani, Alberto Dainese, Filippo Ganna primattori e altri medagliati, al quale ha fatto seguito la settimana iridata di Harrogate in cui gli Juniores con Tiberi nella crono e gli Under 23 con Battistella su strada hanno centrato il bersaglio grosso, mentre tra i professionisti quell'irriducibile combattente che è Matteo Trentin si è dovuto accontentare di una medaglia d'argento che gli va assai stretta. Proprio da questa delusione in maglia azzurra iniziamo la nostra intervista con Davide Cassani, cinquantottenne faentino con 33 vittorie da professionista, oltre a 12 partecipazioni al Giro, 9 al Tour e 9 come azzurro al campionato mondiale.
E' vero che all'arrivo di Harrogate avete pianto entrambi, lei e Trentin?
«Sì, ma il mio era un pianto che racchiudeva un mix di emozioni. C'era il disappunto, la delusione per un successo in cui credevamo, sfuggito per un nonnulla. C'era poi l'orgoglio che ho provato valutando l'eccezionale lavoro svolto dalla nazionale italiana. Ecco, quando si pensa allo spirito di squadra, quello è esistito dal primo all'ultimo chilometro e avrebbe fatto felice quel nostro amatissimo, indimenticabile CT che è stato Alfredo Martini».
Gara durissima, avversata dal maltempo e nazionale grintosa ma senza Viviani..
«Dopo aver visionato il circuito inglese mi sono convinto che non era affatto adatto a Elia e anche lui si è detto d'accordo. Le sue ambizioni le ha dirottate sul campionato europeo, dove ha vinto alla grande a capo di un'altra prestazione superba di tutta la nostra squadra».
C'è chi dice che se Trentin disputasse dieci sprint contro Pedersen, vincerebbe almeno otto volte: è d'accordo?
«Impossibile fare queste valutazioni. Pedersen è un atleta del quale ancora non si conoscono i limiti però, almeno sulla carta, Matteo dovrebbe essere più veloce di lui. Tutto però dipende dal contesto in cui si disputano certe volate e ad Harrogate le condizioni climatiche hanno cambiato le carte in tavola».
Ora è già tempo di pensare al 2020, con due grandi appuntamenti come Olimpiadi e Mondiale. Ha già inquadrato i percorsi?
«Sono due tracciati durissimi. A Tokyo si correrà soltanto sei giorni dopo la fine del Tour de France, quindi ritengo che chi uscirà dallle tre stressanti settimane del Tour non abbia chances. Sei giorni d'intervallo sono troppo pochi e inoltre ci sarà da assorbire un fuso orario di sette ore. Noi abbiamo preso parte alla Preolimpica su questo tracciato in linea molto impegnativo, con la salita finale che presenta pendenze del 17%. Tuttavia Ulissi ha vinto precedendo Formolo e così le indicazioni ricavate sono state assolutamente positive. Successivamente, a fine settembre si correrà il mondiale in Svizzera, ad Aigle-Martigny dove si dovrà affrontare un percorso ancora più impegnativo e ancora una volta i reduci dalla Vuelta potrebbero dettare legge».
Il 2020 le sembra dunque una stagione complicata?
«Sì, ne sono convinto. Per essere protagonisti, disputando almeno un grande Giro, serviranno tre picchi di rendimento, un obiettivo assai difficile da centrare per un corridore dei nostri giorni».
Speranze concrete per gli italiani relativamente ai due appuntamenti?
«Sicuramente Nibali e Ciccone, Aru se si risolleverà e Formolo. Da valutare anche Moscon e qualche altro giovane».
Moscon e Bettiol godono della sua fiducia?
«Sì e finora non mi hanno mai deluso. Mi sembrano due dei giovani più interessanti, quei corridori da Classiche che ci mancano da anni. Bettiol ha compiuto un'impresa memorabile al Fiandre, nella quale nemmeno lui credeva; quando l'ho convocato in azzurro ha sempre svolto un ottimo lavoro, ma ora deve dimostrare maggiore continuità di rendimento».
Dove va il ciclismo?
«Per l'Italia sono ottimista. Dal 2014 in poi mi sembra di avere svolto un buon lavoro, contribuendo a far recuperare gare a tappe degli Under 23 annullate e valorizzando tanti giovani, con le loro partecipazioni periodiche a gare professionistiche. Accanto ai Nibali, Aru e Ciccone sta crescendo una generazione composta da ragazzi promettenti come Bagioli, Battistella, Covi, Dainese e Aleotti. Voglio anche a lodare l'operato dei team Continental che servono come fucina di giovani».
Un elemento che le sta molto a cuore è quello della sicurezza stradale, per il quale lei è diventato anche un qualificato testimonial: a che punto siamo?
«C'è ancora molto da fare. Le nostre strade non proteggono gli utenti deboli come i pedoni – 700 morti nel 2019 – e i ciclisti – 250 morti quest'anno. Disattenzione, telefonini e la classica frase dopo l'incidente “non lo avevo visto....”. Per non parlare poi di chi si mette al volante ubriaco o drogato. Insomma, non c'è rispetto per i più deboli e mi sembra che anche l'introduzione dell'omicidio stradale non abbia migliorato la situazione. Purtroppo io sono una persona esperta di incidenti. Durante la mia carriera ciclistica sono stato investito da auto quattro volte, riportando fratture varie e l'ultimo incidente, nel 1996, mi costrinse a chiudere anzitempo la carriera ciclistica».
Nel ciclismo lei ha rivestito molti ruoli, vissuto tanti momenti indimenticabili, quale di questi le è rimasto nel cuore?
«Tutti. Nel 1976 iniziai a correre in bici con la Solarolese e per me fu l'inizio della grande, bella avventura. Altro momento indimenticabile la prima vittoria in assoluto da me ottenuta, nella Bologna-Monghidoro, il paese natìo di Gianni Morandi. Da professionista sono stati tanti i momenti indimenticabili, a partire dai nove mondiali disputati in maglia azzurra guidato da Alfredo Martini e con il miglior piazzamento colto a Renaix, in Belgio nel 1998: un settimo posto».
E cosa ci dice della lunga parentesi televisiva come commentatore?
«Grande esperienza. Mi è servita per capire tante cose....Fu Marino Bartoletti, allora direttore di Rai Sport, a ingaggiarmi; successivamente ho lavorato con Adriano De Zan, Auro Bulbarelli e Francesco Pancani, tutti ottimi professionisti».
Nel gennaio 2014, infine, la nomina a commissario tecnico della nazionale italiana di ciclismo, una felicità immensa?
«Sì, provai una gioia indescrivibile, un incarico che ho sempre sognato. Da allora ho messo a frutto la mia esperienza di corridore, ho studiato parecchio anche girando il mondo e osservando il lavoro di altre nazionali, con lo scopo di portare i ragazzi a me affidati a esprimere il massimo delle loro potenzialità».
Quali sono i più promettenti ciclisti a livello internazionale?
«Evenepoel è un vero fenomeno, del quale è impossibile intravedere i limiti, ma anche Bernal possiede le stigmate del grande campione, senza dimenticare l'eclettico Mathieu Van Der Poel. In Italia per ora non si intravedono talenti simili, ma senza fretta – poiché è la fretta che spesso rovina tutto anche per noi CT – e con pazienza vedrete che fra non molto potremmo scoprire qualche puledro di razza in grado di rivaleggiare con quei terribili tre talenti sopracitati».