Aveva conquistato la camicia gialla. Era quella di uno sponsor, che nel villaggio di partenza del Tour de France gli aveva messo a disposizione, oltre alla camicia gialla, anche un furgoncino personalizzato e uno spazio dove ricevere i tifosi, gli sportivi, gli appassionati, tutto quel popolo del ciclismo che si era innamorato di lui. E così per un paio di ore, ogni mattina, paziente e solenne, abbracciava amici, incontrava “suiveur”, posava per fotografie, scriveva dediche, firmava autografi, stringeva mani, rilasciava interviste, regalava battute. E allo scoccare della campana, che imponeva la chiusura del villaggio, si eclissava. Raymond Poulidor era diventato il giallo della luce dell’alba, il giallo dell’oro del mattino, il giallo della camicia ma non di quella maglia, che per quattordici Tour aveva inseguito, sfiorato, accarezzato, desiderato, bramato, ma mai guadagnato, come per un misterioso, maledetto, perfido sortilegio.
In dieci Tour de France seguiti per “La Gazzetta dello Sport”, non c’è stata una mattina in cui non sia passato a salutare, venerare, omaggiare il vecchio Poupou con il rispetto dovuto a un sacerdote dei pedali. Il viso si era arrotondato, gli occhi assottigliati, la pelle ispessita. Ma una parola, un gesto, una firma, uno scatto, un sorriso non li negava a nessuno. Si era trasformato in un’istituzione, una bandiera, un simbolo. Era riconosciuto come un testimone del tempo, un eroe del ciclismo, una ruota del Novecento. E da lui, come da un oracolo, ci si recava in pellegrinaggio ogni volta che bisognava valorizzare un pezzo con un’opinione, arricchirlo con un ricordo, impreziosirlo con un confronto. Lui che aveva lottato con Federico Bahamontes e Charly Gaul, duellato con Jacques Anquetil e Felice Gimondi, rivaleggiato con Louison Bobet e Roger Rivière, inseguito Eddy Merckx e Bernard Hinault. La fama di Eterno Secondo era un debito ingiusto, ma un espediente comodo per i giornalisti e anche per i tifosi: nella cassaforte della storia Poupou custodiva vittorie luminose e prestigiose.
Un giorno gli chiesi di Fausto Coppi, e lui mi aprì il suo cuore: “La prima volta che lo vidi fu il 14 luglio 1959, quando venne a correre il circuito di Barsac, in Aquitania, non lontano dalla mia regione, ma la gente, pur di vederlo, arrivava da ancora più lontano. Io ero il campione del Limousin, fra i dilettanti, ma quel giorno correvo da indipendente. Al pronti-via, mi incollai alla ruota di Coppi e ne rimasi incantato: la sua posizione in bicicletta era perfetta, mai visto tanta eleganza. La corsa fu vinta da Jean Dacquay, detto Cric-Crac, ma il risultato era l’ultima cosa che mi potesse interessare. A me interessava soltanto Coppi, cercare di stamparmelo bene nella testa. Poi ricordo che, alla fine del circuito, senza scappare via ma anzi, in tutta tranquillità, Coppi si dedicò a firmare autografi, assediato da centinaia di persone. Ricordo ancora la sua firma: una C molto ampia”.
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