Lui che sprinta in pista, e vince. Lui che sprinta su strada, e perde. Lui che alza le braccia al cielo. Lui che – con timidezza - stringe la mano a Fausto Coppi. Lui che viene minacciato – è un gioco – da Fiorenzo Magni. Lui a tavola con Gino Bartali. Lui che spinge Alessandro Fantini. Lui che passa sotto un passaggio a livello. Lui che si fa la doccia sotto una fontana. Lui che bacia una miss.
A Camalò (Treviso) trenta pannelli di fotografie e articoli e una figurina Elah incorniciata raccontano la storia a pedali di Adolfo Grosso. A cielo aperto, nel cortile di una casa, quasi di fronte alla pizzeria che Adolfo aprì e che il figlio Ezio conduce. Una mostra affettuosa e rivelatrice, aperta soltanto ieri, per il passaggio fulmineo del Giro d’Italia. L’ha realizzata Adriano Martini, suo vicino di casa, scavando negli archivi, fotocopiando, sottolineando, ordinando e regalando, anzi, restituendo tutta la passione che Grosso aveva trasmesso ai suoi compaesani in nove anni da professionista, disputando sette Giri d’Italia, un Tour de France, otto Milano-Sanremo e otto Giri di Lombardia, e vincendo una decina di corse.
Lo chiamavano “l’antigregario”, perché Dolfo aveva il suo carattere: lui, per servire e riverire, non era adatto. “Mi vogliono morto a fare il gregario – confidava Grosso a Rino Negri il 3 luglio 1953 al Tour de France – ma io non mi faccio mettere nel sacco. Io non voglio fare l’asino. Se c’è da dare una mano non mi tiro indietro; ma il cavallo da tiro, fin da questo momento, no!”. Il 4 luglio Grosso rincarò la dose: “Non mi fermerò più per gli altri. Ho bucato dopo aver dato la ruota a Bartali, ma nessuno è venuto in mio aiuto. Me la sono legata al dito. Lo dica sul giornale. Non la smentirò”. E Magni, che ne era il capitano alla Wilier, “è spiacente dei mugugni di Grosso: ‘E’ così bravo, quel ragazzo!’”. Il 5 luglio, stufo marcio, Grosso mantenne la parola e abbandonò la corsa.
Emilio Violante, sulla “Gazzetta dello Sport”, lo aveva ribattezzato “l’intrepido D’Artagnan del ciclismo italiano”, “l’acchiappanuvole della bici”, “il poeta bohemien tra i corridori”. E raccontava di come, arrivato nell’Atala al Giro d’Italia 1956 “con un morale da spaccare le pietre, bastarono due giorni per mettere a bagnomaria il suo spirito di combattente. Perché Fantini aveva conquistato la maglia rosa. Perché Astrua, sul Penice, aveva detto chiaro e tondo che tra quelli che avrebbero potuto vincere la tappa ci stava benone. Perché Monti, volenti o nolenti, era pur sempre libero di fare la sua corsa. E Padovan pensava agli arrivi in volata. E Coletto era indisposto e aveva negli occhi le ombre infide della paura di arrivare in tempo massimo. E Barozzi era lontano dalla forma”. Insomma: “In una squadra formata per metà da capitani, di gregari effettivi non ve n’era che uno: lui, Adolfo Grosso, l’antigregario per temperamento”. Anche Violante sembrava disarmato: “E questa, scusate, è quasi un’ironia”.
Dolfo era fatto così: genuino, diretto, istintivo. Al Giro d’Italia 1954, nella quattordicesima tappa, la Torino-Brescia di 240 chilometri, pare che rifilò un cazzotto a Tranquillo Scudellaro. La giuria si riunì tutta la notte e solo la mattina successiva fu dichiarato il verdetto di assoluzione per insufficienza di prove, ma dopo la corsa Grosso rimase a piedi tre mesi. Al Giro d’Italia 1955, nella prima tappa, la Milano-Torino di 163 chilometri, tentò il colpaccio, attacchi e contrattacchi, fughe e controfughe, ma niente da fare, e ricevette le 50 mila lire del premio della combattività. “Si vede – commentò - che mi hanno perdonato”.
Erano gli anni di Bartali, Coppi e Magni, però Grosso sapeva distinguersi. A modo suo. Quel Giro di Campania 1953, lui arrivò primo, ma i fiori li consegnarono a Coppi, e lui, per la delusione, per la mortificazione, non trattenne le lacrime. E quella Parigi-Roubaix 1955, undici uomini in fuga, tra cui quattro italiani – Conterno, Gervasoni, Pettinati e lui - , bloccati da un passaggio a livello al km 220. Perché lui, Grosso, era l’uomo delle fughe: “Piuttosto che aiutare il capitano – spiega Adriano Martini - tra borracce e ruote, tra spinte e inseguimenti, preferiva andare in fuga e tirare per sé, stando all’aria e sperando di arrivare in fondo. La sfortuna o il destino era che, il più delle volte, le sue erano fughe solitarie. E così si spremeva, si consumava, si sfiniva con le proprie forze”.
ARTICOLI CORRELATI
L'ORA DEL PASTO. CAMALO', DOLFO E IL SENSO DEL GIRO
Se sei giá nostro utente esegui il login altrimenti registrati.