Gilberto Simoni ha deciso di restare lontano dai riflettori dopo il suo ritiro dall’attività professionistica, avvenuto nel 2010, ma non per questo non segue quello che è stato il suo mondo per molti anni. Sebbene partecipi sempre molto volentieri agli eventi al quale viene invitato (non ultima la serata degli Oscar, ndr), non ha per ora intenzione di tornare nel ciclismo con un nuovo ruolo. Vincitore del Giro d’Italia nel 2001 e nel 2003, è stato uno degli scalatori più brillanti che il panorama ciclistico italiano abbia avuto negli ultimi 20 anni.
Vede molte differenze tra il “suo” ciclismo e quello moderno?
«Il ciclismo è cambiato molto ed è normale che sia così. Si è modificato il mezzo, la preparazione dei corridori e l'interpretazione delle corse. Le novità tecnologiche hanno fatto sì che questo sport si migliorasse sempre di più; la vita è andata avanti e con essa anche il ciclismo. Non poteva essere altrimenti. Solo la fatica e le smorfie dei corridori sono rimaste le stesse».
Preferisce il ciclismo di oggi o quello dei suoi anni?
«Gli anni in cui ho corso io non mi sono piaciuti per niente. Non c'è un risultato che non sia stato contestato, modificato o addirittura cancellato. Non rimpiango niente di quel periodo. Il ciclismo di oggi invece mi piace, è moderno ma mantiene qualcosa di eroico. I corridori sono molto seguiti e preparati alla perfezione, ma rispetto ai miei tempi sono meno costruiti e il fisico conta davvero. All'ultimo Giro d'Italia vedere i capitani darsi battaglia faccia a faccia, senza timore, mi ha fatto divertire molto».
Il Team Sky, però, non aiuta molto nel far divertire lo spettatore...
«La Sky fa storia a sé. Ha un budget troppo superiore alle altre squadre e oltre ad avere un sacco di fuoriclasse, ha anche i campioni del futuro».
Al termine del 2019 però ritirerà la sponsorizzazione. Secondo lei è un bene o un male per il ciclismo?
«Spero che non scompaia, ma che si ridimensioni. Dovrebbero accontentarsi di vincere meno, dimezzare il budget e magari puntare su meno capitani. Penso che il ciclismo ne gioverebbe da tutti i punti di vista. Però è un simbolo del ciclismo moderno, quindi spero possa rimanere in gruppo in qualche modo».
In questo periodo i corridori stanno scegliendo il proprio calendario. Ha visto i percorsi di Giro e Tour?
«Si, li ho visti. Se fossi ancora un corridore avrei scelto il Tour. Con così poca cronometro sarebbe stato l'ideale per le mie caratteristiche».
Al Giro però hanno già annunciato la presenza corridori come Nibali, Dumoulin e Simon Yates, solo per citarne alcuni. Si sta riducendo il gap tra Giro e Tour?
«Il Giro è sicuramente cresciuto. Ma il Tour si è un po' tirato la zappa sui piedi. L'anno scorso hanno gestito male il caso Froome e poi c'è sempre il discorso sulla sicurezza. Ormai è una guerra, oltre al nervosismo che c'è in corsa, con le conseguenti cadute, si aggiunge l'esasperazione e l'inciviltà di alcuni spettatori. Per esperienza personale posso dire che se è bello guardarlo in televisione, correrlo lo è molto meno».
Anche dal punto di vista dello spettacolo il Giro sembra essere una spanna sopra.
«È una corsa complicata e aperta, che se vinci una volta non è detto che vinci una seconda. Ci sono salite e discese difficili, percorsi vari e aperti a diverse interpretazioni. I corridori in Italia vengono sempre accolti bene e anche il tifoso medio è molto rispettoso. Basta prendere come esempio Dumoulin: lui avrebbe le capacità per vincere il Tour, ma da qualche anno sceglie sempre il Giro. Mi sorprende, ma si vede che in questa corse respira la stessa aria che respiravo io».
Nibali ha scelto di fare entrambe le corse, scelta giusta?
«Con le qualità che ha sicuramente può fare bene sia a Giro che Tour. Poi è chiaro che ci vuole anche una buona dose di fortuna per poter portare a casa un risultato in tutte e due le corse, deve andarti tutto bene, senza avere cadute, forature o quant'altro. E poi vince solo uno. Nibali comunque è un corridore che mi piace, ha sempre dimostrato grandi capacità e dedizione. Mi sarebbe piaciuto correre con lui prima di ritirarmi».
Aru invece è reduce da un 2018 opaco.
«Un'annata storta che può capitare a tutti. È un corridore tutto sommato ancora giovane, che penso possa tornare sui suoi livelli. Ha vinto una Vuelta da giovanissimo, che non sempre è una fortuna visto che poi bisogna convivere con grandi pressioni, non solo dall'ambiente esterno, ma anche da te stesso, che speri di alzare l'asticella sempre di più».
Esclusi Aru e Nibali, l'Italia fa fatica a trovare nuovi corridori da corse a tappe. Come mai secondo lei?
«Difficile dirlo, sicuramente i giovani fanno fatica a emergere. Se si pensa che io, pur avendo vinto due volte il Giro, per svariati motivi ho corso solamente due mondiali, anche se la Nazionale aveva 13 posti, si capisce come oggi ci sia meno qualità. Premesso che forse avrei meritato di correrne qualcuno in più, nel ciclismo italiano di oggi basta poco per venire convocato. Questo perché l'UCI e la Federazione non fanno il bene del ciclismo».
Cosa non funziona secondo lei?
«Per me è una vergogna che una squadra Professional non abbia un calendario prima dell'inizio della stagione. Ho corso in questa categoria nei miei ultimi anni di carriera e non capisco perché nessuno faccia qualcosa. Una squadra con 25 corridori, che sono dei posti di lavoro, con degli sponsor a sostenerli, che non sa a quale corsa parteciperà per me è inconcepibile. Deve sperare per tutto l'anno nell'elemosina degli organizzatori. Le Continental invece si prostituiscono a destra e a sinistra, corrono un po' con gli Under 23 e un po' coi professionisti. Persino gli amatori hanno un proprio calendario di corse... ».
Quindi non prenderebbe mai in mano una squadra di questa categoria...
«Assolutamente no. Vedo molti direttori sportivi con tanta passione e li apprezzo per questo, ma personalmente non farei mai una squadra senza poter dare garanzie a corridori e sponsor».
Capitolo cardiofrequenzimetri e radioline: toglierli potrebbe giovare al ciclismo?
«Togliere il cardio non ha senso. Più interessante sarebbe eliminare le radioline. Molti corridori non sanno leggere la corsa e, pur avendo magari delle buone gambe, devono farsi radiocomandare dai propri direttori sportivi. Però penso che nel ciclismo il talento non derivi solo dal fisico, ma anche dalla tattica e dall'intuito. Le radioline però annullano tutto questo».
Infine, una battuta sul possibile ritorno di Andrea Tafi. Cosa ne pensa?
«Penso sia più che altro una goliardata, un evento mediatico. Ci sono atleti che a quell'età stanno ancora bene fisicamente, ma personalmente darei spazio ai giovani. Certo, da vedere sarebbe una cosa curiosa...».