di Carlo Malvestio
Quella di Andrea Vendrame a Sappada è stata una delle vittorie più toccanti del Giro d’Italia 2024. Forse perché non vinceva da tre anni, forse perché Vendramix non ha nascosto le emozioni dopo il traguardo, forse perché sappiamo quanto la sua sia una carriera di resilienza. Lo chiamano Joker, perché in bicicletta è un po’ pazzo, anarchico, ma anche perché in faccia ha una cicatrice rimediata in un incidente con una macchina mentre si allenava nel 2016: 50 punti di sutura sulla guancia interna e 60 esterni. Poi la gavetta per passare professionista e ora è uno dei punti fermi della rivitalizzata Decathlon AG2R La Mondiale. Al Giro aveva vinto a Bagno di Romagna nel 2021, ora si è ripetuto a Sappada, dopo un lungo digiuno.
Andrea, possiamo dare un 10 al tuo Giro d’Italia?
«Mmmm… sì, direi di sì, perché ho centrato il mio obiettivo! Prima del Giro, come faccio sempre, avevo studiato bene il percorso e mi ero segnato 2-3 tappe. La prima era quella di Rapolano Terme, quella degli sterrati, dove sono effettivamente riuscito ad andare in fuga ma poi mi sono staccato. Cominciavo ad avere qualche sintomo di bronchite, non mi sentivo bene, e poi infatti nella seconda settimana ho sofferto parecchio. Non che mi sia passata, ancora adesso ho qualche rimasuglio di tosse, ma quantomeno nella terza settimana le gambe hanno ricominciato ad andare. E poi avevo messo nel mirino Sappada, volevo andare in fuga a tutti i costi. Sono entrato nel primo tentativo di giornata ma ci hanno ripreso dopo 30 chilometri. Ma non ho mollato e quando è partito Alaphilippe sapevo di dovergli andare dietro. Lì infatti si è formata la fuga buona e sappiamo come è andata».
Ecco, raccontaci quei primi chilometri in cui tutto il gruppo vuole andare in fuga. Come si sceglie il momento giusto per muoversi?
«Tattica poca, bisogna avere un po’ di colpo d’occhio, fortuna e gambe. Sai di essere alla terza settimana, che c’è tanta stanchezza, che c’è una parte del gruppo che vuole andare in fuga e un’altra che invece vuole starsene tranquilla dietro e fare meno fatica possibile. Io avevo puntato due corridori da seguire, Alaphilippe perché ci prova sempre e la tappa era particolarmente adatta a lui, e De Marchi, perché correva in casa. Infatti poi davanti c’erano entrambi. Devo ammettere che quando voglio andare in fuga raramente sbaglio, è una qualità che ho, che alla fine credo dipenda da diversi fattori».
Tappa 19, era l’ultima frazione buona per l’arrivo di una fuga. Questo ti ha messo più pressione?
«In effetti sì. La sera prima scherzavo coi miei compagni che mi dicevano “domani è la tua tappa, ti giochi l’ultimo jolly”. Un po’ di pressione ce l’avevo, me l’ero messa sulle spalle. E infatti quando siamo partiti col primo tentativo di fuga e il gruppo ci teneva a 30 secondi e non ci lasciava andare, ero nervosissimo, ho cominciato a urlare alla radio chiedendo perché dietro continuassero a tirare e quale squadra lo stava facendo. Lì è stato bravo il mio direttore sportivo Stephane Goubert che mi ha tranquillizzato, che mi ha invitato a non bruciare troppe energie, mi ha detto che i miei compagni stavano rompendo i cambi dietro. Quando poi è rientrato il gruppo e Alaphilippe è partito sullo strappo, proprio perché sapevo che era l’ultima occasione del Giro per me, ho fatto un fuorigiri per restare con lui».
E poi quell’attacco in discesa sotto la pioggia da matto, da Joker…
«Volevo anticipare gli altri e ci ho provato. La parte più difficile è stata all’inizio, quando avevo solo 15-20 secondi di vantaggio. Poi dall’ammiraglia mi hanno detto che gli inseguitori stavano un po’ temporeggiando, che stavano restituendo le mantelline alle ammiraglie, e allora lì ho spinto a tutta, ho guadagnato secondi, e poi mi sono gestito bene coi wattaggi in salita, senza strafare. Analizzando poi i file, però, ci siamo resi conto che sono andato veramente forte, anche perché dietro c’erano quattro corridori che avevano già vinto una tappa - Alaphilippe, Sanchez, Steinhauser e Narvaez - tutta gente che è andata fortissimo in queste tre settimane».
Non è una cosa che ti capita spesso di vincere in solitaria, con un vantaggio così ampio sul secondo.
«Sì, è una vittoria diversa. Stavolta ho avuto il coraggio di attaccare a 30 chilometri dall’arrivo. La mia ultima vittoria alla Route d’Occitanie era stata simile come tempistiche di attacco, però poi il gruppo mi era arrivato a una manciata di secondi, quindi non ho avuto modo di godermi il finale come invece ho fatto questa volta. Ero abituato a vincere in maniera diversa e farlo così mi dà maggiore consapevolezza nei miei mezzi, posso attaccare da lontano e nella terza settimana di un Grande Giro le gambe rispondono bene».
In quegli ultimi chilometri hai anche pensato a come esultare?
«Terminate tutte le insidie, l’ultimo chilometro è stato una passerella, me lo sono goduto. Non ho pensato a molto, i miei diesse mi urlavano nelle orecchie per festeggiare. All’arrivo ho voluto mostrare il palmo delle mani, perché l’azienda Elastic Interface, che mi fornisce i fondelli e altri servizi vari, ha creato dei guanti speciali che raffigurano il Joker e ho voluto metterli in mostra. E poi un bacio al cielo, per mia nonna».
Quest’anno sono andate in porto solo sei fughe contro le 10 degli ultimi 3 anni. Effetto Pogacar?
«Esatto, ne parlavo in questi giorni col mio preparatore Alessio Mattiussi del CTF Lab: è stato un Giro particolare sotto questo punto di vista. Ti dirò di più, sono arrivate sei fughe, ma una è stata quella vinta da Thomas, con una “fagianata”, come direbbe Magrini, in una frazione per velocisti, un’altra è quella di Pelayo Sanchez con il gruppo alle calcagna e poi quella di Steinhauser sul Brocon, scattato però ad oltre metà tappa e arrivato da solo, col gruppo dietro. Quindi di fughe classiche ne sono arrivatre solo tre. Ci tenevo ad entrare almeno in una azione vincente per giocarmi qualcosa, poi sono riuscito pure a vincere quindi direi che è andata alla grande. Farlo in un’edizione poco aperta alle fughe è sicuramente una soddisfazione in più».
Non vincevi da tre anni, l’hai vissuta come una liberazione?
«Sapevo che era questione di tempo. Oltre ai tanti piazzamenti delle stagioni scorse, quest’anno arrivavo da due secondi posti al Romandia ma, in generale, è dall’inizio dell’anno che stavo bene. Il mio preparatore continuava a dirmi che i numeri erano quelli giusti, mancava un pizzico di fortuna per riuscire a concretizzare. Ora però vorrei dare continuità e non fermarmi».
Spiegaci il perché dell’incredibile salto di qualità della Decathlon AG2R. A maggio avete già 23 vittorie, contro le 9 totali dell’anno scorso…
«È cambiato tutto il sistema. In primis la struttura del team, Vincent Lavenu adesso gestisce la parte sportiva, mentre Dominique Serieys è diventato il general manager. Se prima era una conduzione più familiare, ora è tutto più strutturato, programmatico, votato al lavoro, senza tuttavia aver perso quel bel clima che c’era prima. La mente del corridore è molto fragile, se gli cambi i colori, gli cambi lo sponsor sul petto, lo chiami un paio di volte in più per sentire come sta, finisci per cambiargli anche il cervello, in questo caso in meglio. Poi il fatto di essersi trovati subito alla grande coi nuovi materiali, con le bici Van Rysel, di aver fatto studi questo inverno in pista per ruote e manubri, ha dato un’ulteriore spinta in positivo. C’è sempre qualcuno dell’azienda che ci segue, che ci sta vicino, per capire cosa e se si può migliorare, stanno facendo un lavoro eccezionale e noi questa cosa la avvertiamo. I meccanismi ora funzionano alla grande e tra noi corridori c’è grande affiatamento: al Giro siamo arrivati tutti e otto a Roma, abbiamo vinto il premio super team, e ogni sera si stava a tavola per delle ore per parlare, ridere e scherzare, nessuno escluso. Per esempio, Touzé e Tronchon si sfidavano per vedere chi arrivava primo nel gruppetto dei velocisti. Tutte gag del genere che non fanno altro che migliorare l’umore dell’intero team, per poi riflettersi in gara, dove ognuno è disposto a sacrificarsi per l’altro. I risultati si vedono, ma speriamo di essere solo all’inizio».
E ora dove ti vedremo?
«Sono in attesa di indicazioni dalla squadra, per capire cosa dovrò fare in questa seconda parte di stagione. Questa settimana sarà molto blanda, ma non rinuncerò alla bici. Sicuramente ci sarà il Campionato Italiano, che è una corsa sempre particolare, e non nascondo che conquistare il Tricolore sarebbe davvero un sogno. Mi sarebbe piaciuto fare il Tour che partiva dall’Italia, ma quasi sicuramente non ci sarò, la squadra ha altri piani».
Possiamo dire che il tuo 2024 è già un successo?
«Possiamo dire di sì. Tra gli obiettivi avevo il Trofeo Laigueglia e la Strade Bianche, dove sono arrivati dei piazzamenti. Ma una vittoria al Giro ha sempre un sapore diverso, speciale».