di Giulia De Maio
L o chiamavano Nibali quando ancora era un ragazzino, figuriamoci adesso che al debutto al Giro d’Italia è stato il migliore dei nostri. Antonio Tiberi deve rassegnarsi ad essere il volto nuovo del ciclismo italiano per le corse a tappe. Quinto all’esordio alla corsa rosa e con indosso la maglia bianca di miglior giovane, il 22enne laziale ha ricevuto i complimenti persino da Tadej Pogacar che di lui ha detto: «ha dimostrato di avere gli attributi», perché qualche volta ha provato ad attaccarlo.
Tra i pochi ad osare tanto e ad avere le gambe per tentare di rivaleggiare con il mattatore del Giro 107, Antonio ha raggiunto gli obiettivi che si era prefissato con la Bahrain Victorious, il team a cui è legato fino al 2027. Aveva bisogno di conferme, la top 5 nella classifica generale e il titolo di miglior giovane lo sono. Negli ultimi 15 anni l’Italia aveva conquistato la maglia bianca solo con Fabio Aru nel 2015.
«Il Giro è andato alla grande: nel salire sul palco delle premiazioni finali ho realizzato un sogno. Il valore aggiunto è stato concludere queste tre settimane a Roma, non distante dalla famiglia e gli amici. Rispetto a quando sono partito da Venaria Reale sono cresciuto e ho più consapevolezza di me stesso. Mi sono scoperto. Comincio ad essere ad alti livelli, quelli che servono per competere in una grande corsa a tappe», ha raccontato dopo aver ricevuto il dolce bacio della fidanzata Chiara con il Colosseo come sfondo.
Antonio è stato bravo a gestire i gradi di capitano, aiutato da tutta la squadra e in particolare da un uomo d’esperienza del calibro di Damiano Caruso. Anche a lui il talento nato a Frosinone e cresciuto a Gavignano ricorda lo Squalo: oltre che per le attitudini fisiche, per la tranquillità nell’affrontare gli alti e bassi di una corsa lunga ed esigente.
«Sono davvero contento, non mi aspettavo di andare così bene - aggiunge Antonio, che ha chiuso a 12’49” dalla maglia rosa e 2’25” dal terzo posto finale di Geraint Thomas. - Senza la sfortuna nella tappa di Oropa avrebbe potutao andare ancora meglio, ma sono felicissimo comunque. Il giudizio sulla prima grande corsa a tappe che ho affrontato da capitano non può che essere positivo. Lo scorso anno alla Vuelta ho sofferto abbastanza per prendere il ritmo, arrivavo da un piccolo infortunio al tendine di Achille, quindi non avevo avuto una preparazione perfetta. Quest’anno invece è andato tutto liscio e sono arrivato al 100%. Questo sicuramente ha influito».
Si sente un leader?
«Sempre di più. Quando ho cominciato ero molto remissivo, anche in gara, cercavo di non dare fastidio, avevo quasi paura di impormi, di fare a spallate. Adesso col passare del tempo ho preso fiducia e mi viene anche di farmi rispettare di più. Alle gare il mio obiettivo è essere il migliore in generale. Bisogna porsi obiettivi sempre più alti. Il mio è Pogacar. Magari non ci arriverò mai, ma lavoro per resistere alla sua ruota e poi un giorno magari batterlo. Perché no?».
Il suo ruolino di marcia promette bene: 8° nella prima tappa con arrivo a Torino, 6° sia nella cronometro di Perugia che in quella di Desenzano del Garda, 4° a Prati di Tivo, 5° sul Monte Pana, 3° sul Passo Brocon e 4° a Bassano del Grappa.
«Sono partito subito molto competitivo e sapevo di poter guadagnare nelle prove contro il tempo. Quest’inverno ci ho lavorato molto, con i partner del team siamo anche riusciti a realizzare un manubrio custom per me e avevo svolto la ricognizione delle prove scandite dalle lancette. Ho retto bene le novità del ruolo. Le responsabilità, la concentrazione al massimo in ogni tappa. Quando sei il capitano designato non ti puoi mai rilassare perché puoi incappare in qualche incidente o in una giornata storta, come mi è accaduto già il secondo giorno e a Livigno. Sono soddisfatto e ottimista per come il fisico ha risposto allo stress, mi sento cresciuto».
Iridato a cronometro da junior nel 2019, ha ben figurato nelle prove contro il tempo e in salita, i terreni sui quali si fa la differenza nelle corse a tappe. Il momento più emozionante lo ha vissuto dietro al palco a Bassano del Grappa quando, al termine di una tappa epica, ha abbracciato i genitori e con loro ha pianto di gioia, prima di addentare una meritata pizza alla diavola. Mamma Nadia e papà Paolo lo hanno seguito dal vivo alla crono di Perugia, il giorno dopo a Prati di Tivo e per tutta l’ultima settimana. E pensare che il padre, quando Antonio era un bambino. aveva fatto di tutto per tenerlo lontano dalle biciclette. Ma il ciclismo gli piaceva, in casa si guardavano Giro e Tour, e Antonio cresceva: con la passione dei motori ma la fissa di correre in bici.
La scintilla si era accesa a 8 anni quando uno zio gli aveva regalato la prima bici: gialla, col cambio sul telaio. Cominciò a correre e Nibali diventò uno dei suoi modelli insieme a Contador e Purito Rodriguez. Sognava di vincere la Parigi-Roubaix, ma quando finalmente lo portarono sul pavé, era uno stagista di 18 anni, fece la prima gara nelle Fiandre, la Freccia del Brabante, e capì al volo che con le classiche era meglio lasciar perdere. Crescendo si è capito che era un atleta di resistenza e l’amore per il Giro da italiano è stato la conseguenza naturale.
«Da piccolo non vedevo l’ora che ci fosse qualche tappa vicino a casa per andarla a vedere con mio padre. Fiuggi, Anagni, la carovana, i corridori. Sognavo un giorno di essere lì anch’io. Ma era come dire “da grande farò l’astronauta”: il ciclismo era un mondo completamente diverso da quello a cui ero abituato, quasi irraggiungibile - ricorda -. Quella che provo adesso, dopo essere salito sul palco delle premiazioni finali con una maglia così importante, è la sensazione più bella che ho provato da quando corro in bici».
Antonio non ha rimpianti: «Senza i due minuti e mezzo persi ad Oropa, quando ho forato sul più bello e la bici sull’ammiraglia ha presentato un problema alla ruota anteriore, avrei potuto ottenere di più, ma la sfortuna fa parte del gioco. La vittoria di tappa? Quando lotti per la classifica generale è sempre più difficile puntare ad un traguardo di giornata».
E non ha nemmeno paura per ciò che lo aspetta.
«La responsabilità di essere il “nuovo Nibali” che il ciclismo italiano attende da quando Vincenzo ha smesso di gareggiare ora la sento un po’ di più ed effettivamente ora è più realistica, ma come ho sempre detto, questo paragone mi fa piacere e mi carica positivamente. Per fortuna di carattere tendo ad essere molto tranquillo, a non badare troppo a quello che si dice di me e alle pressioni che mi vengono messe. È un vantaggio. Per me è stato un onore averlo seppur brevemente come compagno di stanza al termine della sua carriera e, quando lui è nelle zone della moglie Rachele e io dai miei genitori, è bello uscire per una pedalata insieme. Un consiglio da un campione del suo calibro è sempre ben accetto» confida.
Il direttore sportivo Franco Pellizotti assicura che ha margini di crescita: «Non solo dal punto di vista fisico, ma anche mentale. Il Tour of the Alps prima e il Giro d’Italia poi gli hanno dato la conferma che può lottare alla pari coi grandi capitani delle altre squadre. Una delle sue forze è la tranquillità, la capacità di farsi scivolare tutto addosso, senza per questo perdere la necessaria concentrazione in corsa. Ha le stimmate del grande corridore. Ha la capacità di assorbire le critiche o di celebrare una vittoria alla stessa maniera, e questa è una qualità enorme».
Tornato a casa martedì dopo la kermesse Cycling Stars Criterium a Pieve di Soligo, ha giusto avuto il tempo di disfare e rifare i bagagli perché venerdì lo attendeva il volo per una nuova corsa.
«Al Delfinato spero di poter sfruttare la buona gamba con cui sono uscito dal Giro. Nei tre giorni passati a San Marino ho cercato di rilassarmi il più possibile. Il 28 maggio non ho toccato la bici, per il resto il programma prevedeva una sgambatina quotidiana giusto per tenermi in movimento. Ho visto qualche amico, mi sono concesso una passeggiata in centro e al mare a Rimini, insomma ho ricaricato le batterie».
Una boccata d’aria in un ciclismo sempre più esigente e totalizzante.
«Caruso mi diceva che fino a qualche anno fa in altura ogni tanto ci si prendeva un giorno di riposo e si scendeva a mangiare una bistecca, a svagare la mente. Invece adesso è diventata una gara a chi resiste di più. Accade anche in corsa, si vede anche dalle cadute. Sono sempre di più perché è tutto più estremizzato. Da vedere è più bello, però per noi è diventato parecchio più stressante e anche un po’ più pericoloso. È sparito il cazzeggio, il godersi la bici. Adesso è diventato un lavoro».
Questo Giro per Tiberi è un punto di partenza, anche se chi lo ha (stra)vinto è risultato inavvicinabile.
«Pogacar è molto forte e agli occhi di tutti sembra un extraterrestre - ammette -. Io per il momento lo vedo come una persona che può ispirarmi a fare ancora meglio. Gli auguro di riuscire nella doppietta con il Tour de France e mi sono assicurato che non venga alla Vuelta a España».
La corsa spagnola scatterà il 17 agosto da Lisbona e Antonio si presenterà al via con ambizioni per la classifica generale. Ormai è nel suo destino. Abbiamo trovato il “nuovo” Nibali, si chiama Antonio Tiberi.