Anna Salice: «Dalla tecnologia al designm Salice ha sempre saputo guardare lontano e precorrere i tempi»

di Pier Augusto Stagi

«Vede, io sono nata lì e lì ci vivo ancora». Lì è qui, davanti ai no­stri occhi. Una vil­la elegante di fine Sei­cento, che solo in un secondo tempo si sarebbe dotata, oltre che del blocco centrale dove è nata An­na Salice e dove vive, anche di due ali per farne una bellissima corte. Difatti, da villa signorile adagiata sulle sponde del lago di Como, con il tempo diventò una filanda, anche perché Gra­vedona, dove incontriamo la signora Salice, ti­tolare dell’omonima azienda, un tempo era terra di gelsi e ba­chi da seta.
«Vede, io sono nata lì…», mi indica la signora Anna, terza generazione di una famiglia votata all’occhiale, anche se in principio furono solo astucci. È nata qui, in questa dimora elegante ed es­senziale, con interni recuperati di rara bellezza tutti da scoprire, che non è azienda, ma famiglia e comunità: fratellanza.
Si respira aria buona da queste parti e si vede bene. Soprattutto si vede del bello: un ambiente curato che è scrigno di storia aziendale e famigliare.
Ne va giustamente or­go­gliosa la signora Anna e se fossimo in lei faremmo lo stesso. Sono qui per intervistare questo mese “una capitana coraggiosa”, un’imprenditrice che sa il fatto suo e che lo fa da anni con la de­dizione e risoluta passione che le sono proprie. «Vede che bello? ... ».
Lo vedo, lo vedo.
Il verbo usato è quello ideale: è quello che ci accompagna e ci accompagnerà in questa intervista, fatta però di do­mande e di ascolto: soprattutto di ri­cordi. Ci sta proprio bene il verbo ve­dere per un’azienda che ha costruito la propria storia su prodotti che aiutano a guardare meglio o comunque a proteggere la vista.
«Qui io mi sento libera, perché sono a casa mia, perché sono nella mia culla, attorniata da collaboratori competenti e bravi che mi vogliono bene come io ne voglio a loro, ma l’assurdo è che questo luogo è anche la mia prigione, dove il cancello è il limite del mio carcere. Un limite valicabile, superabile e sconfinabile quando e come voglio. Quando lo faccio mi sento libera, in un posto nel quale mi sento a mio agio e in pace. Anche se in questa casa-azienda ci sto maledettamente bene, forse troppo bene».
Come nasce la Salice?
«La fonda mio nonno Vitaliano, classe 1884, nel 1919, quando ha 25 anni. Pri­ma due anni a Milano, dove il nonno si era trasferito per lavorare come commerciante di articoli ottici. Non si è mai tirato indietro, era un ragazzo molto volitivo e pragmatico, dopo gli studi si è messo subito all’opera e quando gli hanno proposto di acquistare un’attività non se l’è fatto ripetere due volte e ha accettato. A lui non sono mai mancati né l’intraprendenza né tan­tomeno il coraggio. Parte come Vi­taliano Salice, poi dopo due anni a Mi­lano, trasferisce l’attività al suo paese natale, Musso, a due paesi da qui. Il perché è semplice: il nonno era grato alla sua gente, al suo territorio e in particolare ad una nobildonna che gli ave­va permesso di studiare, pagandogli tut­ti gli studi. Insomma, si è sempre considerato fortunato e, a differenza di molti, anche molto riconoscente. Visto che le cose andavano bene e che l’attività stava crescendo velocemente e a dismisura, decise di tornare a casa. “Voglio produrre dove posso essere utile alla causa. Come io sono stato fortunato, voglio che lo siano anche altri ragazzi come me”. E così fece. Cen­tocinque anni di storia, 105, non sono pochi. In questo lasso di tempo la Sa­lice ha vissuto momenti importanti pas­sando dalla produzione degli astucci per contenere gli occhiali a quella di lenti temperate per proteggere gli occhi dei mugnai, fino ai moderni prodotti sportivi che tutti oggi conosciamo, di­rezione questa intrapresa dopo la seconda Guerra Mondiale».
Ma come ci finite qui in questa bella villa seicentesca?
«Sul finire degli Anni Trenta, l’azienda produce e va a gonfie vele, ma c’è da trovare una sede più ampia. Ecco che salta fuori l’opportunità di acquistare questa villa di Gravedona, poi filanda, poi anche sede degli alpini. Nel ’38 il nonno ritira questo stabile e ne fa la nuova sede della Salice Occhiali. Nel ’53 costituisce la Srl, intestata solo ai figli maschi. A quei tempi si faceva co­sì. Le donne? Poco considerate, ma era un pensiero comune, era un modo di fare».
Oggi la Salice è in pratica un’azienda di sole donne…
«Tutte donne, eccezion fat­ta per due dipendenti di sesso maschile. Perché donne? Perché il nostro è un lavoro manuale di altissima precisione e le don­ne con le loro piccole mani, veloci e flessibili sono davvero insuperabili».
Lei nasce qui a Gravedona?
«Sì, il 21 maggio 1960, sotto il segno dei gemelli. Bimba energica e molto amata da mio papà Romano, ingegnere elettromeccanico, che però muore giovanissimo, quando avevo da compiere 18 anni. Venne a mancare cinque giorni prima del mio compleanno: il 16 maggio del 1978. Fu un evento terribile, tragico e doloroso come pochi, che superai solo mettendomi in gioco. Da un giorno con l’altro mi sono sentita di colpo grande. Da figlia a donna, il pas­so è stato breve. Mi sono rimboccata le maniche ed è così co­minciata la mia avventura di donna imprenditrice. Cer­to, con calma, con i gusti passaggi. Mio padre era un uo­mo illuminato e un giorno pare che disse a mio zio “Anna manderà avanti l’azienda”. Mio padre ci aveva visto giusto, mio zio anche… questo aneddoto me lo raccontò proprio lui (lo zio, mancato nel 2018, ndr) molti anni dopo, quando avevo già ac­quistato le mie quote, ammettendo che mio padre era stato lungimirante».
Non deve essere stato facile.
«Da giovane donna mi sono dovuta far accettare, zigzagando nei meandri di un certo maschilismo. Era un Paese così il nostro, non facilissimo, ma non mi sono però mai sentita né un’intrusa né tantomeno una sopportata, ma l’esatto contrario. Mi sono forgiata co­sì, Salice è stata la mia palestra e la mia formazione è stata severa e fatta di grande spirito di responsabilità».
Passo indietro: le scuole.
«Elementari e medie a Gravedona: dal­le suore Canossiane. Il liceo scientifico al “Carlo Donegani” di Sondrio. Poi mi inscrivo alla Bocconi, ma non la ul­timo. Se la cosa mi è spiaciuta? Oggi dico di sì, anche se poi ognuno di noi è le scelte che ha fatto e le mie non sono poi state così peregrine».
Quando entra a far parte della Salice?
«Se mi consente una battuta sono sempre stata in Salice, perché ho sempre respirato aria di azienda e la cosa mi piaceva un sacco, non l’ho mai nascosto e forse papà questo l’aveva visto e notato. Nel gennaio del 1982, entro però ufficialmente a far parte della grande famiglia aziendale, anche se prima - nel 1980 - mi sono occupata per un paio di anni di una società di famiglia che faceva rigenerazione di materie plastiche: ge­stivo sette dipendenti. Il 25 gennaio 1982, come le dicevo, entro in azienda e mi occupo principalmente dei fornitori. Mi piace e faccio molto di più di quello che mi era stato chiesto. Il successivo pas­saggio è datato 16 agosto 1986. Do­po averne parlato con lo zio Alessan­dro, inizio a se­guire la direzione di tutta l’azienda».
Quindi diventa sostanzialmente direttrice?
«Sì, mentre lo zio di fatto diventa il presidente, io mi trovo a dirigere l’azienda in toto. Questo grazie ad uno zio illuminato, come lo era mio papà. Una persona perbene, un vero galantuomo, un uomo di una sola parola e di alti principi. Trent’anni di differenza e non sentirli. Oggi ho il 66% della so­cie­tà, il resto è di Fernanda, mia cu­gina, la figlia dello zio. Anche con lei andiamo d’amore e d’accordo».
La svolta che vi ha portato alla produzione di elementi votati allo sport, sci e ciclismo, ha segnato il vero cambio di passo per l’azienda.
«La vera svolta la dobbiamo allo sci sul finire degli anni Cinquanta, quando nel ciclismo si era fermi al classico cappellino… Nel 1986 un marchio concorrente immise sul mercato un occhiale dedicato al ciclismo: fu la svolta. Grazie a loro è cambiato il mondo del ciclismo e noi con loro. Abbiamo importato questo marchio fino al 1993, mentre per il casco poi il discorso è stato ancora più difficile. I primi occhiali erano semplici occhiali sportivi, erano ac­cessori polivalenti, oggi tra le mani abbiamo prodotti dedicati. Nel 1990 ho fatto scelte e investimenti im­portanti per l’azienda e lo stesso vale per gli anni post 2000, quando ab­biamo smesso di produrre per terzi. Mi sono resa conto che dovevo concentrare tutto sul marchio e così ho fatto. Pro­du­ciamo elementi di qualità e cerchiamo di mantenere prezzi corretti, giu­sti, una scelta fortemente voluta e alla qua­le non voglio rinunciare. Pun­tiamo sul marchio, cosa che per altro avevamo co­minciato a fare già con lo sci negli Anni Sessanta e Settanta, con la “valanga azzurra” di Gustav Thoeni e Piero Gros, Paolo De Chiesa ed Erwin Stric­ker. Sono anni di grande crescita e concitata creatività. In questi anni si fa lar­go un’idea di fare sport sulla neve e Sa­lice, da sempre proiettata verso il futuro, anticipa un’altra volta i tempi iniziando la produzione di maschere da sci».
Poi ci sono gli anni dei “paninari”
«Gli anni del consumismo più sfrenato, degli yuppies. In quel periodo di frenesia assoluta Salice si impone ancora una volta sul mercato con un modello di successo come il mitico Articolo 38. Sono gli anni in cui entro a far par­te dell’azienda, e oggi posso dire che, nonostante i 105 anni di età, la no­stra resta un’azienda a carattere fami­lia­re, sempre giovane e dinamica, ani­ma­ta da spirito di squadra e appartenenza, che mette il prodotto al centro di tutto se­condo l’antico principio della qualità al giusto prezzo. Il rapporto molto intenso con i rivenditori, e di ri­flesso anche con le esigenze dell’utente finale, ci sta consentendo di attraversare con profitto fasi economiche e di mercato spesso non facili. Il Covid? Se dio vuole è alle spalle: dopo il boom c’è stata la frenata ed è chiaro che adesso si tornerà a livelli di normalità, ci sarà una normalizzazione, verso l’alto, pe­rò».
Voi fate tutto in Italia?
«Sì, tranne i caschi. I caschi adesso li pro­gettiamo, li certifichiamo, li disegniamo noi e li faccio produrre in Ci­na».
Passioni?
«Chiaramente per lo sci, per il cavallo e le moto. Oggi ho 64 anni e rimpiango la moto, forse avrei dovuto fare qualche giro in più, ma non potevo giocare con la sorte, ho la responsabilità di di­verse famiglie e non me la sono mai sen­tita di anteporre me al bene dell’azienda».
Ha un posto del cuore?
«Gravedona. Dopo Gravedona? Direi Pa­narea».
La sua canzone?
«Francamente ne ho tante e dovrei far­le una lista pressoché infinita».
Me ne dica un paio.
«“A mano a mano” di Riccardo Coc­ciante interpretata però da Rino Gae­tano. E “Vita spericolata” di Vasco Rossi, ma come le ho detto ne ho dav­ve­ro tante. La musica è davvero una co­lonna sonora che accompagna i no­stri momenti della vita e li ferma. Una can­zone ha il potere evocativo di ri­chiamare quel momento lì, quella situazione, bella o meno bella».
Il cinema le piace?
«Molto».
Un film che rivedrebbe o comunque che ha lì?
«Un film meraviglioso che ho iniziato a vedere a 16 anni e che rivedrei ancora è Harold e Maude. Mi piace un sacco, ce l’ho anche qui sul computer, quando posso e ne ho voglia è come la mia co­pertina di Linus, lo programmo e me lo vedo. Tra quelli di oggi direi C’è ancora domani, di Paola Cortellesi, un film dav­vero bello, per intensità e contenuto: la regista ha saputo trasformare le brutture dell’uomo in melodia e danza. È un film efficace e intelligente: un po’ come La vita è bella di Roberto Be­ni­gni. A proposito di grandi film, non posso mancare di citare Non ci resta che piangere, con la coppia Mas­simo Troisi e Ro­berto Benigni. Ma non posso fare a me­no di mettere in questo elenco anche La Grande bellezza, di Paolo Sor­rentino».
Attore preferito?
«Pierfrancesco Favino».
Attrice?
«Monica Vitti e Anna Magnani. Di oggi Paola Cortellesi».
Fiore?
«Sono indecisa tra una rosa e un giglio, ma le dico rosa».
Colore?
«Io mi vesto regolarmente di blu, an­che se adoro l’arancione».
C’è una cosa che la manda in bestia, una cosa che non sopporta?
«Le bugie».
Bici e monopattini sembrano conquistato le nostre strade. Cosa ne pensa?
«Ho un monopattino elettrico e un’autovettura elettrica, ma credo che questa non sia la via giusta. Certo, chi noleggia un monopattino in città e non in­dossa il casco è da considerare davvero matto. Sa quante lettere ricevo dai clien­ti che mi ringraziano perché i miei caschi hanno salvato loro la vita? Il ca­sco dovrebbe essere obbligatorio? Cre­do di sì, ma si tratta di una scelta autonoma che chiunque dovrebbe fare in piena libertà. Se è Salice è una scelta più bella, più consapevole. Sono presuntuosa? No, orgogliosa e sincera. Le ho detto, vero, che odio le bugie? …».
Sì, me l’ha detto.
«Vede?».

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