di Pier Augusto Stagi
Merckx, Hinault o Pantani, si sprecano i paragoni, scarseggiano i superlativi, abbondano gli aggettivi, non mancano i record che Tadej Pogacar realizza e migliora: crea.
Si nutre di vittorie il protagonista assoluto del Giro d’Italia numero 107, che è passato agli archivi per entrare nella storia attraverso un racconto semplice e lineare, scritto con buona grafia da un talento assoluto, quello che può diventare il corridore ciclista più forte di ogni tempo, ma che già adesso, a soli 25 anni, è da considerare tra le eccellenze assolute di questo sport, al pari di Eddy Merckx e Bernard Hinault, per intenderci.
«È stata un’esperienza fantastica, sono felice di aver corso il Giro d’Italia, sono felice della gioia che mi hanno trasmesso gli italiani», ha detto appena arrivato a Roma. «Sono andato oltre le mie più rosee aspettative».
Non è un cannibale, ma un golosone. Divora tutto come i suoi illustri predecessori, solo che Taddeo lo fa con il volto bambino, il sorriso sulle labbra. La cosa curiosa è che i suoi avversari lo prenderebbero anche volentieri a male parole per quei suoi continui assoli senza soluzione di continuità, ma alla fine lui li disarma con un sorriso. Dopo il traguardo, dopo averli battuti regolarmente, li va a cercare tutti a uno ad uno, per salutarli e abbracciarli, per dargli il cinque. E come con il nostro piccolo talento Giulio Pellizzari, il più giovane del Giro con i suoi 20 anni (2° a Santa Cristina in Val Gardena proprio alle spalle di Taddeo, ndr), dopo averlo battuto gli ha donato gli occhiali rosa oltre al simbolo del Giro. «Un giorno sarà tua - gli ha detto -, sei un ragazzo di grande talento e farai sicuramente strada».
Intanto Tadej è arrivato a Roma con sei vittorie di tappa, la maglia azzurra di miglior scalatore e quella rosa, che si andrà ad aggiungere alle due gialle che ha già in bacheca, oltre a sei classiche Monumento: tre Lombardia, due Liegi e un Fiandre. Avrebbe voluto vestire la maglia di leader subito, nella prima tappa di Torino, ma ci è solo arrivato vicino. Ha dovuto solo rimandare l’operazione di ventiquattro ore, ad Oropa, e da quel momento in poi una certa parte di stampa e opinionisti ha cominciato a criticarlo con la litania del corridore incapace di gestire le forze, troppo impulsivo e forse anche incapace di rispettare gli avversari.
«Il Giro è una corsa di tre settimane e le forze vanno centellinate», hanno detto in molti. «Pogacar sbaglia, perché un giorno gli mancheranno le forze che non ha risparmiato, perché avrà bisogno di amicizie in gruppo che non si è costruito...», hanno aggiunto altri.
Tutto bene, tutto giusto per il 98% dei corridori, ma visto e considerato che lui fa parte appunto di quella piccola élite di ciclisti che, per dirla alla francese, sono “hors categorie” - fuori categoria - ha fatto quello che ha nel proprio Dna. «Io mi diverto a correre e ancora di più a vincere: sono qui per questo», ha spiegato questo ragazzo sloveno che ha firmato la prima cinquina che mancava al Giro dai tempi di Manuel Fuente (1974) e ha infilato cinque vittorie in maglia rosa come non si vedeva da Merckx 1973, il Giro dominato dal belga dal primo all’ultimo giorno, senza che però nessuno si lamentasse o storcesse il naso. «
«Questa oltre ad essere la mia passione è oggi il mio lavoro, la mia professione. Sono pagato per vincere. Questo è quello che vogliono i miei sponsor», più chiaro di così.
Non c’è nulla di eroico in quello che ha fatto questo ragazzo di Komenda, perché gli eroi sono coraggiosi ma umani; con le loro fragilità, i loro dubbi e i loro punti deboli, che superano appunto con il coraggio e questo li rende eroi. Tadej è di un’altra categoria, proviene da un’altra galassia, da un altro mondo. Per certi versi è sovrumano perché sul suo volto si fa fatica a intravvedere i segni della fatica. Sul suo c’è gioia giocosa, felicità di esserci e partecipare a qualcosa di bellissimo, che lui ha il potere di rendere unico.
«Il mio gesto della borraccia al ragazzino? Mi è venuto così. È stata una coincidenza che il mio massaggiatore fosse lì, e che il ragazzino corresse al mio fianco. Mi è venuto spontaneo».
Alcuni scomodano Marco Pantani, che detiene l’ultima doppietta Giro-Tour datata 1998, quella che quest’anno Taddeo insegue. Marco era uomo di sofferenza, che regalava gioia, ma sul suo volto traspariva sofferenza. Per Marco la velocità ascensionale non era una sfida gravitazionale, ma un modo di abbreviare l’agonia, come ebbe modo di definire lui stesso il suo incedere forsennato sulle grandi vette del mondo. Pogacar non è così, non lo sarà probabilmente mai, perché il giorno in cui sui suoi occhi calerà il velo della sofferenza, per “Pogi” sarà il momento di scendere di bicicletta.
«Per questo obiettivo, per questo doppio impegno ambizioso e difficile ho cambiato un po’ di cose - racconta il ragazzo di Komenda -. Ho un nuovo allenatore (lo seguiva Iñigo San Millan, rimasto tra gli allenatori del team, ma ora anche capo della performance dell’Athletic Bilbao di calcio, ndr), e sono differenti le strategie di preparazione. Ho l’impressione che quasi tutto sia nuovo. Mi fido delle persone che mi circondano, mi fido soprattutto di Javier Sola, che mi sta seguendo in questa stagione molto impegnativa e stimolante».
Detto che il Giro l’ha vinto dando un filo di gas e che al Tour avrà come rivali Vingegaard e Roglic oltre a Evenepoel, per Pogacar sembra proprio che i limiti siano solo un ostacolo da superare semplicemente con un saltello. E se invece che Pantani il vero riferimento fosse, per esempio, la tripletta Giro-Tour-Mondiale? Solo due precedenti: Merckx 1974 e Roche 1987. Qualche mese fa, dopo una buonissima Strade Bianche, Davide Formolo, ex compagno di squadra di Tadej tra il 2020 e il 2023 ebbe modo di dire: «Sembra che faccia un altro sport rispetto a noi. Può vincere sia i tre grandi giri sia i cinque Monumenti».
Non è un corridore cannibale, tutt’al più goloso. Taddeo emana gioia, trasmette passione, incanta chi in bicicletta non ci è mai andato e con lui - come accadeva con Marco - gli appassionati si siedono sul divano ad aspettare una sua progressione, il suo volo pindarico o il gesto unico e infinito di un artista sui pedali, che con lui diventano petali di rosa.