Monica e Paola Santini: «Tecnologia e anima green nel futuro di questa avventura»

di Pier Augusto Stagi

Sono in due ma lavorano per quattro, anche per papà e mam­ma, che hanno creato dal nulla un’azienda che ri­spon­de al nome di Santini Maglificio Sportivo (SMS). So­no due donne, Monica e Paola, ma non per questo si sentono penalizzate, anzi. «Ci mettiamo la nostra creatività, il nostro gusto femminile - dice Moni­ca, amministratore delegato dell’azienda di Bergamo -: io il senso pratico, Paola il senso estetico, assieme una de­ter­minazione da paura».
Nuova sede e nuove sfide. Una nuova sede, nel cuore della Città dei Mille, a due passi dall’autostrada, in una struttura bellissima che pare un museo sor­to nello storico quartiere della Malpen­sata. Qui l’architetto Giuseppe Gambi­rasio negli anni Sessanta disegnò per la famiglia Perolari, per anni titolare della Perofil, una struttura industriale che nel breve volgere di tempo diventò sim­­bolo della città. I Santini hanno acquistato l’immobile e l’hanno ripensato attraverso le intuizioni e la visione dell’architetto Marco Acerbis, noto per la lunga collaborazione con il prestigioso studio Foster+Partners di Londra.
Le nuove sfide sono quelle di sempre: stare sul mercato, portando avanti il lavoro di papà Pietro Rosino Santini, che per oltre cinquant’anni ha condotto l’azienda in ogni angolo del mondo, con una visione globale e basata sulla ricerca tecnologica e sulla qualità.
«Ancora oggi mi domando come sia sta­to capace di rendere il marchio Santini così internazionale, parlando solo l’italiano…», si domanda Paola, marketing manager e responsabile della comunicazione dell’azienda di famiglia. Una realtà di 150 persone, che nel 2023 ha fatturato oltre 27 milioni di euro. E dire che tutto era iniziato per via di una frattura al piede, un po’ come era accaduto qualche anno prima ad un’altra eccellenza del made in Italy come Ernesto Colnago, che a causa di una frattura alla gamba iniziò la sua avventura in un bugigattolo di cinque metri per cinque.
«Papà ha creato questa azienda partendo oltre cinquant’anni fa da un piccolo garage della Bergamasca - ci racconta Monica, nata a Bergamo il 12 maggio del 1971 -. Benedetta fu una frattura del piede. Dovete sapere che lavorava in un’officina meccanica a Curnasco, azienda fornitrice della Dalmine. Un giorno, mentre saldava un tubo, sbagliò un fissaggio ed uno di questi tubi gli cadde rovinosamente sul piede procurandogli la frattura del me­tatarso. Per 40 giorni fu costretto a re­stare a casa a riposo: per uno come lui, abituato a fare sempre qualcosa, una vera condanna. Le sue sorelle, la zia Ma­ria e la zia Natalina, in quel periodo facevano le magliaie in casa. Avevano in cucina due macchine e lavoravano prevalentemente per i privati. Così, piuttosto che stare lì a guardare il soffitto, si mise a dar loro una mano. Gli bastò poco per comprendere che quel lavoro era più redditizio e salubre del suo in fabbrica. Altro che fumo degli elettrodi, ne parla con le sue sorelle e i suoi genitori e, nonostante non fossero d’accordo, alla fine la spuntò, tanto è vero che con il nonno andò anche a comprare la prima macchina per ma­glieria: costava 10 milioni di vecchie lire e firmò una montagna di cambiali per accontentare il giovane Pietro Ro­sino (aveva 16-17 anni, ndr): “Mi raccomando, non farmi fare figure”. Que­sta è la frase che in certe occasioni è solito usare anche con noi. Dal canto suo si mise a lavorare come un matto e strinse accordi profittevoli con marchi importanti come la Silvy Tricot che produceva abbigliamento da sci. Lavo­rava giorno e notte per pagare le cambiali. E più lavorava, più velocemente pa­gava le rate. E più trovava clienti, più si ampliava e acquistava altre macchine più belle e performanti. Nel 1965 nasce ufficialmente la Santini Maglifi­cio Sportivo, il prossimo anno saranno sessant’anni».
Come nasce l’idea del ciclismo?
«Papà era letteralmente innamorato di questo sport - spiega Paola, nata a Tre­score Balneario il 20 settembre del 1982 -. Era talmente innamorato che, alla fine, le cose le ha anche fatte accadere. Difatti, un giorno un amico gli chiese di fare delle maglie per i corridori e lui non se lo fece ripetere due volte, anche perché erano quelle della sua squadra, quella per la quale aveva corso pure lui da ragazzino, l’Uc Sfor­zatica. Poi, come spesso accade, si attiva il passa parola e nel breve volgere di qualche mese il lavoro non è più mancato e quelli che papà faceva per la Silvy Tricot è stato costretto a interromperli, ben felice di dedicarsi anima e corpo solo alla produzione di maglie per i corridori. Prese un altro laboratorio a Brembo, e da quel momento non abbiamo più smesso di fare maglie per il ciclismo».
Da quasi quarant’anni siete fornitori uf­fi­ciali dell’Unione Ciclistica Internazio­nale (Uci).
«La prima maglia iridata col nostro marchio l’ha indossata Maurizio Fon­driest nel 1988 - spiega Monica, mam­ma di Lodovica (19 anni) e Gregorio (14), da venti legata a Gianmarco Ga­brieli -. Papà aveva un distributore bel­ga, l’ex corridore professionista Frans Verbeke, che era amico del presidente della federazione belga che quell’anno era chiamata a organizzare i mondiali.  In quegli anni chi organizzava la sfida iridata si occupava di tutto, anche delle maglie. Dopo quella prima esperienza, papà però strinse un rapporto di collaborazione direttamente con l’Uci, che ancora oggi è in essere».
La maglia più bella?
«Per noi quella che faremo, per papà quella della Vie Claire, la formazione di Bernard Tapie - aggiunge pronta Paola, mamma di Sofia (7) e Riccardo (5), sposata con Marco Manzoni -. La Vie Claire era una società di cosmetici e nel 1984 diventò di fatto una delle formazioni più forti del mondo grazie alle vittorie di Bernard Hinault e Greg LeMond. La maglia che Tapie voleva era ispirata ad un quadro del pittore olandese Piet Mondrian. Ancora oggi quando papà ne parla dice che quando la vide rimase senza parole e gli si drizzarono i capelli, ma quella inedita composizione geometrica è rimasta nella storia e lui ce l’ha davvero nel cuore».
Santini fu anche la maglia di Pantani.
«Fece tutto Felice Gimondi che, oltre a Bianchi, portò il nostro maglificio - ag­giunge Monica -. Anche in quella circostanza, come era abitudine in quegli anni, non si firmò nessun contratto: so­lo una bella stretta di mano e la sola presenza di Gimondi fece da garanzia all’operazione. Com’era l’amicizia di pa­pà con Felice Gimondi? Profonda e sincera. Erano due fratelli separati alla nascita. Da ragazzino papà ha corso in bicicletta con la maglia dell’Uc Sfor­zatica, ma ben presto ha capito che quello non sarebbe stato il suo futuro. L’amicizia tra papà e Felice sbocciò sulla pista di Dalmine, dove papà era impegnato come organizzatore. Tra loro ci sono sempre stati affetto e sti­ma, ri­gore e serietà. Papà è il classico uomo tutto d’un pezzo, Felice non era da me­no. Due esempi concreti di tempra bergamasca: una parola data era una parola data. Punto».
Parliamo un po’ di voi: gli anni della formazione.
«Scuole elementari e le medie non di­stante da qua, nel quartiere Malpen­sata - ricorda Monica -. Scuola religiosa, al San Bambin Gesù, un ordine fran­cese. I miei genitori mi misero qui anche perché quella era una delle po­che scuole che applicava il tempo pieno e visto che loro lavoravano, da qualche parte dovevano pur mettermi».
Le superiori?
«Sono diplomata perito aziendale corrispondente in lingue estere, istituto anche in questo caso cattolico, di suore Or­soline. Poi università a Bergamo: lau­rea in Economia, un anno di Era­smus in Svezia e tesi tra l’Italia e gli Stati Uniti».
Il primo impiego?
«Ho cominciato a lavoricchiare in azienda fin dai tempi dell’università. Un lavoro part-time, che dopo la tesi e per sei mesi è stato a tempo pieno. Poi mi sono trasferita a San Paolo, in Bra­sile, dove ho fatto il mio vero ingresso nel mondo del lavoro. Assunta alla Scac, l’acronimo di Società Cemento Armato Centrifugato. Il mio incarico era di essere elemento di raccordo tra l’azienda brasiliana e la clientela che era prevalentemente composta da multinazionali americane. Una sorta di “liaison” tra le due realtà. I nostri clien­ti erano Motorola, Ericsson e Lu­cent Technologies. Erano gli anni del boom telefonico e la Scac produceva pali per le linee telefoniche, bisognava essere affidabili e puntuali, cosa che in Brasile non era così scontata. Diciamo che lì mi sono fatta le ossa. In Brasile arrivo a inizio 1997, torno in Italia a fi­ne 2000».
Nel 2000 rientra alla Santini: Marco Pantani ha già vinto Giro e Tour.
«E sta vivendo un momento terribile della sua vita. In ogni caso, nonostante la distanza, sono al corrente di tutto, perché ho sempre seguito con passione le vicende ciclistiche attraverso i racconti di papà e le corse che, nonostante fossi in Brasile, non mi sono persa per nessuna ragione al mondo. Come ha ricordato, torno in Italia ed entro subito in azienda, anche perché mamma e papà dicono che c’è assoluto bisogno. Va detto che in quel periodo lascia l’azienda per sopraggiunti limiti di età una signora che aveva di fatto mandato avanti per anni l’amministrazione. Fini­sco quindi a fare quello che non avrei mai voluto fare: controllare i conti. L’idea in voga in quegli anni è sempre quella: sei una donna, ti occupi di am­ministrazione. Faccio buon viso a cattiva sorte e mi do da fare: sono così, il do­vere prima di tutto. Avrò preso da qualcuno… Ribalto completamente la struttura amministrativa, implementando il sistema di gestione e nel contempo do inizio a un periodo di formazione del personale che nel breve periodo avrebbe portato i frutti sperati. Questo mi è stato utile per conoscere l’azienda, per metterci mano e occhio, oltre al na­so. Dopo il sistema gestionale, ho co­min­ciato ad occuparmi di controllo qua­lità e produzione, dopodiché ho pre­so in mano la parte acquisti e vendite».
Il successivo step?
«Nel momento in cui ho riorganizzato la parte amministrativa e l’ho affidata ad un responsabile, io mi sono spostata sul prodotto e il commerciale, non pri­ma però d’aver richiamato a casa Pao­la. Di marketing e pubblicità l’azienda si è sempre occupata, ma mancava un ufficio dedicato: con lei abbiamo completato l’opera».
Anche per Paola è un rientro dall’estero: se Monica è tornata dal Brasile, lei è tornata dal Regno Unito.
«Per la precisione da Londra. Dopo le scuole elementari e medie come Mo­nica al San Bambin Gesù e le superiori alla Capitanio dove ho conseguito il diploma linguistico con indirizzo giuridico economico, mi sono laureata allo IULM di Milano in pubblicità e pubbliche relazioni. Dopo di che ho fatto il ma­ster in Marketing e strategie di co­municazione a Londra e qui resto per sette anni, visto che vengo assunta da una società di distribuzione de La Per­la, per il Regno Unito. Cercavano una persona che sapesse parlare inglese e italiano, perché con l’inglese in Italia faticavano non poco. Nel 2009 mi chiama Monica: in quei mesi stavo già pensando al mio futuro, alle mie prospettive. Anche perché la Perla era stata venduta nel frattempo ad un fondo ame­ricano: quella chiamata fu davvero provvidenziale».
Quando di fatto vi trovate a tutti gli ef­fetti a guidare l’azienda?
«Dopo anni di “crash test” e prove sul campo - riprende il discorso Monica -, nel 2009 assumo il ruolo di Ammini­stra­tore delegato. Questo è un anno importante, arriva Paola, l’azienda è sta­ta in pratica reimpostata e quindi ci sono tutti gli elementi per cominciare a camminare da sole, con l’occhio attento e vigile di papà, ma anche di mamma che ha sempre svolto un ruolo di attenta e preziosa mediazione. Nel 2014 c’è il vero passaggio di quote: oggi la so­cietà è suddivisa in parti uguali tra me a Paola, 50 e 50. Papà è presidente e mamma Maria Rosa è membro del CDA».
Da bimbe, quando avete avuto contezza di quello che realmente faceva papà?
Paola (ride di gusto…): «Per anni ho pensato che papà andasse a letto vestito, perché lo vedevo sempre in giacca e cravatta. Era impeccabile e francamente ci ho impiegato un po’ a comprendere quello che realmente faceva. Poi, da adolescente, abitando di fatto a Lallio, so­pra lo stabilimento produttivo, ho com­preso bene quello papà e mamma facevano e cosa ci permetteva di stare molto bene. Ricordo che in estate, do­po aver fatto i compiti, mi rifugiavo negli uffici sotto la nostra abitazione perché c’era l’aria condizionata. Papà non l’ha mai voluta in casa».
Monica: «Io ricordo ancora il vecchio stabilimento di Brembo, all’epoca si faceva tutto in maglieria e spesso per tenermi sott’occhio mi mettevano lì a paraffinare la lana piuttosto che a ripulire i capi dai fili di lana che avanzavano: avevo 5 anni, per me era un semplice gioco, quei fili diventavano dei fantastici mostri. Diciamo che ho scoperto ben presto quale fosse il lavoro di papà…».
La passione per la bicicletta e il ciclismo è anche vostra.
Monica: «Ho sempre adorato il ciclismo, anche perché papà mi ha sempre portato alle corse. Mi piaceva un sacco, un po’ perché ero con lui e poi perché l’ambiente era un fantastico luna park, dove si respirava aria di festa. Il mio rapporto con papà? Bellissimo, anche se è sempre stato un tipo molto esigente e duro, diciamo rigoroso, ma capace anche di slanci di grandissimo affetto. Testa dura? Sì, ma ce l’ho an­ch’io. Fi­no a 18 anni ho dovuto fare quello che voleva lui, soleva dirmi: “Fin che pago io, le vacanze si fanno dove diciamo noi!”. Fin quando non ho messo da parte un po’ di soldini fa­cendo dei lavoretti part-time e a 19 anni gli ho detto: “Papà, io vado a New York: il viaggio me lo pago io!”. Non proferì parola».
Paola: «Papà è adorabile, anche perché c’è mamma, che è sempre stata la no­stra alleata, una donna capace di condurre papà anche dove forse non si sa­rebbe recato. Diciamo che la grandezza di papà è data anche dal fatto d’aver scelto una donna perfetta per lui, che ha saputo bilanciarlo e stemperare qual­che sua rigidezza. Come papà è sempre stato molto premuroso e protettivo, diciamo pure ansioso. Mai ci avrebbe fatto correre in bicicletta. Se amo il ciclismo? Chiaro che lo seguo, ma non sono una fanatica come Moni­ca, io preferisco praticarlo, al ciclismo ho sempre preferito la bicicletta, difatti mi sono dedicata tantissimo al tria­thlon, almeno fino al periodo del Co­vid, oggi ho un pochino rallentato e faccio più gran fondo e nuoto, lo sport che più amo».
Per papà il campione del cuore era Felice Gimondi, gemello separato alla nascita. Per voi?
Monica. «Per me c’è un solo nome, su tutti: Marco Pantani. Quello che mi ha trasmesso lui nessuno mai. Certo, papà ci ha regalato un gran bel lavoro, che ci consente di pedalare con tantissimi atleti, alcune persone assolutamente ec­cezionali come Purito Rodriguez o Alessandro Petacchi, Gianni Bugno, Oscar Freire o Cadel Evans, anche se la lista sarebbe più lunga».
Paola. «Quando vinse Giro e Tour avevo 16 anni: Marco Pantani è stato qualcosa di unico. Monica ha detto la verità, lavorare in questo ambiente, con alcuni atleti è un dono, perché in questi anni abbiamo davvero incontrato ragazzi eccezionali. Io ho nel cuore Alessandro Va­notti, un ragazzo che lavora sotto traccia ma sa promuovere il nostro sport come nessuno. Averne di Alessandro Vanotti… Ma in questi ultimi anni abbiamo an­che conosciuto una se­rie di ragazze che sono davvero delle fuoriclasse, delle don­ne di rara intelligenza e disponibilità, come Eli­za­beth Mary “Liz­zie” Deignan, Eli­sa Balsamo o Eli­sa Longo Bor­ghini».
Papà è partito da zero con una semplice macchina per maglieria, avete preso co­scienza di quello che è stato capace di fare con così pochi mezzi?
Monica: «Altro che. Ha fatto qualcosa di pazzesco. Dire che è stato bra­vo è poco. Questa è una generazione che dovrebbe conseguire una laurea honoris causa. È faticoso per noi, che ab­biamo una strada tracciata e mezzi di co­noscenza di gran lunga superiori, ma fa­re ciò che hanno fatto lui e molti del­la sua generazione ha davvero dell’incredibile. Spesso si dice: non hanno studiato. Vero, ma andrebbero studiati».
Paola: «Mi sono sempre chiesta come sia riuscito a fare quello che ha fatto senza parlare una lingua. Il processo di internazionalizzazione è partito fin da su­bito con lui, ha raggiunto davvero ogni angolo del mondo, è qualcosa di pazzesco. Come ha fatto? Se dovessi pensare di fare la stessa cosa oggi non saprei da dove cominciare. Una cosa che ripete è quella dei suoi amici che a 18 anni andavano in discoteca, mentre lui stava a lavorare fino a tardi, anche il sabato. Oggi quando li incontra e gli dicono: “sei stato fortunato…”, lui ab­bozza, saluta con un sorriso. Ma fortunato che cosa? mentre loro andavano a ballare, lui lavorava».
Come vedete il vostro prodotto nei prossimi anni?
Monica. «Da quando sono arrivata, il mondo dell’abbigliamento sportivo è cambiato tantissimo, crescendo a di­smisura sotto l’aspetto tecnico e di de­sign, ma sono convinta che non siamo nemmeno all’inizio. Le tecnologie ci permetteranno di fare cose ancora più particolari, anche molto più puntuali. Le modalità di stampa ci consentiranno di fare creazioni sempre più pazzesche, andremo verso i substrati, un domani le maglie potrebbero essere costruite attraverso altri tipi di tecnologia. Il tessuto continuerà ad esserci, ma attraverso particolari tecnologie o finissaggi potrebbe assumere altre coniugazioni. Siamo solo all’inizio».
Paola. «Il tema sarà via via più incentrato sulla sostenibilità, questo sarà sem­pre di più un argomento guida, che già oggi guida e anima la Santini».
Vi rivolgerete solo al ciclista?
Monica. «Chiaro che il nostro consumatore tradizionale è quello super tecnico, super performante, ma ci confrontiamo anche con un consumatore sempre più attento alla ricreazione, alla pratica meno esasperata e più confortevole. Meno focus alla prestazione, ma grande attenzione alla moda e alla praticità».
Paola. «Il mondo cambia: si va a lavorare in bicicletta, noi abbiamo una li­nea che risponde anche a questa esigenza. Chiaramente il prodotto Santini sarà sempre tecnico, sia che tu vada a fare una passeggiata, al lavoro o a fare una corsa. È chiaro che la linea casual o tempo libero c’è, ma nella sostanza per noi la componente tecnica di per­formance è ancora altissima. La giacca che sembra un giubbino di jeans, ma nella realtà è tutta internamente fatta in termo felpa quindi ti tiene caldo ma ti protegge anche dalla pioggia grazie al trattamento DWR (durable water re­pel­lent), è la nostra risposta più concreta. Diciamo che ci rivolgeremo ad atleti che cercheranno meno performance personali, ma chiederanno mol­te performance al capo che andranno ad indossare».
Quest’anno doppio impegno: il Tour per la prima volta nella sua centenaria storia arriva in Italia.
Monica. «È una grande opportunità, un sogno che si realizza. Il nostro ac­cordo con Aso è fino al 2026 e siamo felici di poter lavorare con loro. Se ci troviamo bene? Benissimo. Hanno un livello di professionalità molto alto e non potevamo trovare di meglio».
Paola: «Siamo già tutti concentrati su questa data, 29 giugno. Stiamo lavorando da mesi con passione e tenacia. Come sto dicendo da tempo, forse non vedremo più il Tour passare dall’Italia, ci sono volute più di cento edizioni per­ché ciò avvenisse, quindi rendiamo questa opportunità memorabile».

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