Ganluca Pzzi: «Con Drali abbiamo le radici affondate nella storia e siamo pronti a costruire il futuro»

di Pier Augusto Stagi

Sarà la storia a dire se da una bottega la Drali si trasformerà in carrozza, pardon, in una piccola-media azienda, ma una cosa è certa: una sto­ria la Drali ce l’ha già.
Una storia scritta da Carlo e poi da suo figlio Giuseppe, morto tre anni fa a 93 anni. Una storia nata da Carlo, che per qualche anno è stato il responsabile del “reparto corse” della Bianchi di Coppi e poi, una volta uscito, ne è diventato concessionario in quella zona di Mi­lano che all’epoca prendeva il nome di “baia del re”, un quartiere nato nel 1926 per volere dello IACP (Istituto Au­tonomo Case Popolari, ndr) che costruì 1.886 alloggi per le famiglie povere e gli sfrattati che abitavano nel­le baracche del comune in zona Ti­ci­nese. Il regime chiamò inizialmente questo quartiere “28 ottobre”, in ricordo della Marcia su Roma, ma gli abitanti, quasi tutti operai, rifiutarono quel nome e lo ribattezzarono “Baia del Re” in onore del comandante Um­berto Nobile, che da questa zona partì con il suo dirigibile “Italia” verso il Po­lo Nord. Solo nel dopoguerra il quartiere “Baia del Re” prese il nome di Stadera (la bilancia in dialetto meneghino), da una pesa pubblica che era in funzione in viale Giovanni da Cer­me­nate.
Qui nasce la bottega di Carlo Drali e che poi sarebbe stata portata avanti dal figlio Beppe e da sua moglie Marisa e dalla cui bottega sono passati un po’ tutti: da Coppi a Magni, da Bartali a Binda.
«Il Drali era un telaista provetto, un piccolo sarto che ha fatto nella vita quello che ha sempre desiderato fare - racconta oggi Gian Luca Pozzi, amministratore delegato della nuova Drali -. Ha appreso il mestiere alla Gloria, proprio come Colnago e proprio assieme ad Ernesto: ma come lui stesso in più di un’occasione ci raccontava, Colnago aveva una visione del mondo, Beppe arrivava al massimo a Pavia. “Io ho fatto una boutique, lui un’azienda che il mondo intero ci invidiava”, ci ha sempre raccontato con infinita ammirazione per quello che a ragione è riconosciuto da tutti come il Maestro, il quale non mancava un Natale senza fargli gli auguri: quello era il dono più gradito che potesse fargli».
Il Drali, con l’articolo rigorosamente davanti, è cresciuto con una venerazione, quella per Fausto Coppi la cui im­magine ancora oggi giganteggia davanti al bancone.
«Per oltre ottant’anni ha lavorato con la sua immancabile tuta blu da meccanico e il cappellino da ciclista con tanto di aletta d’ordinanza tirata all’insù - aggiunge Pozzi -. Prima in via Agilulfo, tra via Chiesa Rossa e via Stadera. Poi in via Palmieri, dove oggi stiamo sviluppando un progetto nato quasi per caso e con l’intento di fare biciclette in stile vintage, mentre ora puntiamo a fare il salto di qualità e portare Drali in una nuova dimensione, anche se di fatto l’abbiamo già portata».
Come conosce il Drali?
«Colpa e merito di mia figlia Matilde (Pozzi, classe ’69, laureato in Inge­gne­ria gestionale al Politecnico è sposato con Lara ed è padre anche di “Lulù” Ludovica, ndr) che voleva un cane e difatti è arrivato. Jack era un incrocio e grazie a lui e ai suoi giretti in un giardino di via Stendhal, conosco il professor Angelo Mantovani, medico chirurgo, grande appassionato di ciclismo, praticante e da divano, conosceva alla perfezione il Drali, anche perché ne era il medico. Un giorno venne a sapere che il Beppe voleva chiudere bottega. Do­po la morte della moglie, non ne voleva più sapere di andare avanti, anche perché cominciava ad avere una bella età. Io e due miei cari amici d’infanzia, An­drea Camerana e Robert Carrara, in quel periodo stavamo cercando di capire cosa fare dopo aver terminato le no­stre precedenti attività lavorative. Ave­vamo, ognuno per ragioni diverse, scelto di guardarci dentro e soprattutto riprenderci un po’ la vita tra le mani. Ci piaceva l’idea delle bici storiche, ci eravamo avvicinati a quella filosofia che era ed è l’Eroica, in particolare Andrea ed io, così quando An­gelo ci parlò del Drali ci si accese im­mediatamente la lampadina e decidemmo di provare a rilevare la sua attività».
Come fu il primo incontro?
«Divertente, anche perché il Drali non mi accolse benissimo. Andai un sabato con Angelo nella sua bottega e lui si mostrò parecchio freddino. Faticava a parlare in italiano, la sua lingua è sempre stata il milanese: “Giuinott, lu ‘l me capiss, vèra?”. Poi però si sciolse e comprese subito che eravamo delle brave persone e che volevamo dargli una ma­no, soprattutto volevamo salvare quello che di buono aveva costruito».
Quattro amici, quattro “capitani coraggiosi”, con una passione vera per le due ruote che di fatto oggi sono l’anima della nuova Drali Milano.
«Inizialmente il più malato era ed è proprio il medico: Angelo Mantovani, il nostro gancio. È grazie al suo intuito, alla sua sensibilità se oggi siamo qui. Robert Carrara, bergamasco classe ’69, è un amico fin dai tempi dell’università e come Andrea è un dottore in agraria. Figlio di Andreino Carrara, negli Anni Settanta-Novanta una figura apicale della Democrazia Cristiana di Bergamo e cofondatore dell’AIDO (Associazio­ne Italiana Donatori Organi, ndr) in Italia. Robert è sposato con Mercedes (catalana) e ha due figlie, Anna e Judit. È il nostro presidente. Andrea Ca­ma­rama classe ’70, lo conosco da sempre, da quando avevamo cinque anni. Vi­vevamo vicinissimi e ci siamo sempre frequentati. Lui è un “nipote d’arte”: la mamma Rosanna Armani è la sorella del noto stilista Giorgio. Sposato con Ales­sia Aquilani, meglio conosciuta co­me Alexia, vincitrice tra l’altro del Fe­stival di Sanremo nel 2003. Andrea è papà di due ragazze, Maria Vittoria e Margherita ed è grazie al Drali che noi tre fondiamo una holding, la CPC (Ca­merana, Pozzi, Carrara, ndr), nella qua­le c’è appunto l’ex bottega di Bepin Drali insieme ad altre nostre attività. L’obiettivo? Non gettare alle ortiche la storia di un uomo che ha percorso una gran bella fetta di storia della bicicletta. Abbiamo un sacco di idee. Alcune le abbiamo già realizzate, altre sono in corso d’opera. Siamo partiti da un ne­gozio e ora possiamo dire che nel cuo­re di Milano sta prendendo forma un’azienda di mille metri quadri. Qui ab­biamo un nuovissimo magazzino che fino a poco tempo fa era una legatoria, dove assembliamo le nostre bici e in questo progetto rientra anche quello di BAC-Milano, società che ci vede impegnati al fianco dell’architetto Alfonso Cantafora, e con la quale progettiamo e realizziamo dei portapacchi e delle borse da bikepacking. Insomma, abbiamo recuperato la storia, per investire nel futuro».
Torniamo al passato, che è poi il presente: lei come arriva alla bicicletta?
«Dopo la laurea in ingegneria vado a lavorare alla “Gsm Box”: i primi sms, le prime notifiche per aggiornare in tempo reale gli appassionati di calcio. È stata una bella esperienza. Poi passo alla “TXT e-solutions”, azienda di software: un player internazionale specializzato nella realizzazione di soluzioni digitali. Quindi divento responsabile della logistica alla Yamaha per il sud Europa e poi alla giapponese Yusen Lo­gistics. Alla fine, come le ho detto, decido di riprendermi un po’ del mio tempo. Le giornate volavano via troppo velocemente e le mie figlie volevo vederle crescere, al fianco di mia mo­glie. Questo sentimento era anche quel­lo di Robert e Andrea. Ad una cer­ta età capita e a noi è capitato. Così ci siamo per un attimo fermati e dopo delle belle esperienze lavorative ci sia­mo detti: ora facciamo qualcosa che piace anche a noi. Così abbiamo fatto. Drali è stato il motivo e lo scopo, il primo tassello di un mosaico che stiamo mettendo a punto, con calma, ma anche con passione e soprattutto visione. Siamo tre amici, quattro con An­gelo che nella Drali ha il 5% per un senso di gratitudine. Andrea, Robert ed io siamo tre amici affiatati e complementari, ognuno con le proprie competenze e caratteristiche: Andrea ha una indiscutibile visione imprenditoriale; io quella organizzativa e produttiva; Ro­bert ha un animo contabile e finanziario. In ogni caso due sono gli operativi: io e Robert. Io amministratore delegato, lui presidente. Io più logistico, lui più finanziario-amministrativo. Io pe­dalatore, lui sul divano. Io milanista, lui atalantino. Andrea? Juventino».
Del Drali è rimasto anche l’Alessandro, rigorosamente con l’articolo.
«Alessandro Merli è il nostro anello di congiunzione con il Beppe, il ragazzo di bottega che il Drali aveva scelto co­me suo erede e tirato su come quel fi­glio che non ha avuto e come un nipote aggiunto. Quando noi conoscemmo il Drali, Alessandro era lì con lui e la sua inseparabile cagnolona Bea. Ha appreso tutti i suoi segreti e oggi è con noi per traghettare la Drali in una nuova dimensione. L’unica cosa che non ha appreso è la “medicina”».
In che senso?
«Il Drali per una vita aveva un rito, quello della medicina da prendere tre volte al giorno: alle 11, alle 15 e alle 18. “Vu in de la cinesa a fa la puntura”, va­do di là dalla cinese a fare la puntura, diceva. La medicina o puntura che dir si voglia altro non era che il Campari, che lui addolciva con un po’ di Coca Cola: insomma, è campato con il Cam­pari. Alessandro questo rito non l’ha preso. Per completezza di informazione il Drali andava ghiotto di gorgonzola e salame, non propriamente dietetico, ma cosa gli vuoi dire, è campato fino a 93 anni benissimo e l’ospedale l’ha visto per la prima volta a 90 anni per essersi rotto il femore».
Torniamo alla Drali di oggi: da due anni siete al fianco anche di un team Conti­nental.
«Forniamo le biciclette alla Sias Rime di Marika Leali. È un team serio, gestito da tre bravissimi tecnici come Da­niele Calosso, Sergio Gozio e Gabriele Rampollo e per noi è molto utile per avere un confronto diretto e costante con atleti che in ogni caso corrono nell’anticamera del professionismo».
Dicevamo di un’azienda che sta crescendo nel cuore di Milano.
«Come tante aziende di un tempo, co­me la già citata Gloria, la Doniselli o la stessa Bianchi, l’azienda di biciclette più vecchia al mondo nata nel capoluogo lombardo. È il nostro orgoglio, la nostra sfida, cercando di rimanere in un quartiere che ha voluto bene al Dra­li e in pratica ci ha adottato come depositari di una eredità che ha un valore che non merita di essere dissipato, per questo abbiamo adottato il man­te­nimento dei giardini di via Mon­tegani, così come l’orto botanico della scuola Battisti di via Palmieri, frequentata da bimbo anche dal Drali. C’è un valore economico, ma c’è un dovere anche eti­co, che si coniuga con la so­stenibilità, l’aggregazione, nell’essere parte di una comunità. Chi ama il ciclismo fa parte di un gruppo, di una famiglia e noi co­me tali ci sentiamo e ci comportiamo».
Il tutto in nome dell’italianità…
«Questo è il punto fermo: italianità significa cura del particolare, del dettaglio, per questo nel nostro staff sono entrate professionalità come Danilo Na­politano, meccanico di assoluta esperienza e Manuel Colombo che sta facendo un lavoro egregio come re­sponsabile commerciale sia in Italia che all’estero. Il tutto per lavorare at­torno ad una bicicletta italiana che come tale si deve distinguere. Vale per tutti, anche e soprattutto per Drali. Noi non vogliamo essere dei restauratori, ma dei ristrutturatori. Partiamo dalla Pokerissima per arrivare al carbonio, alle bici gravel e a quello che sarà. Oggi abbiamo due prodotti in acciaio: Mor­pheus con freni a disco e tradizionali. Tre bici in carbonio: Amethista, Onice e Opale. E poi due gravel: Miraggio e Oasi. In ogni caso siamo prossimi a lanciare altri tre modelli. Chi sono i nostri partner? Per i gruppi, tutti. Per la componentistica Vision, FSA, Deda e Ursus in particolare, con Selle Italia e Prologo come selle. Poi Dmt e Q36.5».
Il gravel sta prendendo sempre più piede e strada: ghiaiosa e polverosa.
«Come tutti ci stiamo puntando molto, tanto è vero che da quest’anno abbiamo anche una squadra - la Undrafred - con Daniele Calvi, triatleta che lavora con noi da tempo, e Matteo Manuelli».
Dove volete arrivare?
«Vogliamo crescere, senza però snaturarci. Chiaro che siamo ambiziosi, ma è nella nostra indole fare un passo per volta, una pedalata dietro l’altra. Siamo partiti dal salvataggio di una bottega, quella di Beppe Drali, e oggi siamo qui con una struttura di mille metri quadrati. Non è molto, ma non è nemmeno poco. Dobbiamo crescere, consolidarci, farci conoscere e apprezzare. Siamo come la vostra bellissima rubrica, quattro “capitani coraggiosi”, ma non incoscienti. Ambiziosi ma non presuntuosi. Visionari, ma non in preda ad allucinazioni. Siamo coscienti di chi siamo e cosa rappresentiamo. Se le dicessi che sogniamo di arrivare a produrre un milione di biciclette le direi una grandissima bugia, se le dicessi in­vece che abbiamo a cuore il marchio Drali e con esso desideriamo fare delle belle biciclette su misura, le dico il ve­ro. Lo faceva il Drali, vorremmo farlo anche noi in suo nome. Lui è arrivato con lo sguardo al massimo a Pavia, noi vorremmo an­dare oltre. Conquistare quo­te di mercato, superare qualche confine. Un piccolo grande marchio globale? Perché no?».
Sarà la storia a dire se da una bottega la Drali si trasformerà in carrozza, pardon, in una piccola-media azienda, ma una cosa è certa: una storia la Drali ce l’ha già.

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