di Nicolò Vallone
L’ingresso in un nuovo anno è un buon momento per stilare bilanci e tirare somme. In qualità di narratori del ciclismo ad ampio raggio, non solo agonistico, appena passate le festività abbiamo dato un’occhiata alle tabelle Aci-Istat sull’andamento degli incidenti stradali nelle grandi città italiane (in queste pagine vi mostriamo quelle relative a 2019 e 2022). A un primo sguardo non si notano cambiamenti nel lustro in corso: città più città meno, migliaio più migliaio meno, il range delle cifre è costante. Scorporando però i dati per singolo mezzo di locomozione, notiamo che quel trend apparentemente invariato è la risultante di due opposti: lieve diminuzione dei sinistri con soli veicoli a motore, quasi raddoppio dei sinistri con biciclette.
Come a dire: vuoi l’evoluzione tecnologica e urbanistica, vuoi le campagne e legislazioni ad hoc, la disciplina dell’automobilista rispetto alle quattro e due ruote motorizzate sta fortunatamente migliorando; di contro il boom delle bici, ulteriormente accelerato dalla pandemia, è andato a cozzare con un contesto infrastrutturale e culturale non ancora pronto. Ergo convivenza tesa, quando non drammatica, tra utenti della strada.
Una situazione perfettamente rispecchiata a Milano, punto di riferimento per opportunità universitarie e lavorative, dove all’aumentare di popolazione e traffico corrispondono cinque ciclisti deceduti all’anno. E dove secondo Paolo Bozzuto, professore del Politecnico e autore dell’Atlante italiano dei morti e feriti gravi in bicicletta, solo un quarto degli incidenti è colpa del ciclista e, per una persona che perde la vita, ce ne sono duecento ferite.
Sul tema sicurezza abbiamo fatto e faremo domande a tanti intervistati e intervistate del mondo ciclistico. Ma in questo avvio di 2024, dove per la cronaca le vie del capoluogo lombardo avrebbero presto mietuto la prima vittima (notte tra il 9 e il 10 gennaio) abbiamo deciso di accogliere il punto di vista di chi rappresenta “l’altra parte della barricata” ossia Geronimo La Russa, presidente dell’Automobile Club di Milano.
«Non ci sono barricate, non siamo nemici» tiene subito a precisare il nostro interlocutore, mostrandoci il manifesto d’inizio Novecento che potete ammirare nella pagina di apertura del servizio. Si tratta di una pubblicità della Prinetti Stucchi, fabbrica di auto, moto e bici in epoca pionieristica, nonché vincitrice con la propria squadra dei Giri d’Italia a cavallo della Grande Guerra (Calzolari 1914 e Girardengo 1919). Quel cavalleresco saluto tra ciclista e automobilista, che campeggia nel corridoio della sede dell’ente automobilistico meneghino, è l’immagine che, riportata a design e modi da XXI secolo, vorremmo fosse la normale realtà.
«Ed è l’immagine che, insieme al fatto di aver ospitato in queste stesse stanze la prima sede di Ciclobby, di aver aperto l’autodromo di Monza alle biciclette e di essere partner del Giro d’Italia tramite Sara Assicurazioni per promuovere la sicurezza, simboleggia il nostro rapporto col ciclismo - afferma La Russa mentre ci accomodiamo con lui in sala riunioni -. Non nutriamo nessuna ostilità: né noi come associazione pubblica che ha a cuore la mobilità a 360 gradi, né io personalmente (quando porto in vacanza la mia famiglia, adoro andare in bici tra riviera e colline romagnole) né il mio vice Pietro Meda che è presidente di Eicma, fiera di ciclo e motociclo: la strada è e dev’essere di tutti e per tutti!».
Però il “dualismo tra fazioni” si percepisce tutti i giorni sulla strada e nei discorsi della gente, e si fa a tratti feroce...
«Qualcuno ci vuole mettere su un piano contrapposto, complice il fatto che la tolleranza non sia proprio figlia di questo tempo, ma noi incoraggiamo le istituzioni politiche ad aiutare la convivenza. In una città come Milano, ad esempio, riteniamo che si debba implementare un bel piano di parcheggi sotterranei che consenta di adibire aree a ciclisti, pedoni e garantire comunque posti auto adeguati. Invece si è preferito creare il dualismo cui accennava lei, restringendo le carreggiate e togliendo spazio alle autovetture per disincentivarne l’utilizzo. Così però intasi, inquini e per giunta ostacoli le ambulanze. Per non parlare delle piste ciclabili semplicemente pitturate sull’asfalto tanto per far vedere che sono state fatte, e poi succedono i disastri. Avrebbe senso semmai impiegare studio, fatica e risorse per una viabilità che preveda meno ciclabili promiscue, specie sulle arterie principali: non serve che le ciclabili siano tantissime in assoluto, ma che siano quelle che servono, e strutturate in modo sicuro».
Per lei, allora, diminuire il numero di automobili non è un obiettivo da perseguire?
«In realtà una diminuzione ci sta, ci mancherebbe: per fortuna non c’è più lo status symbol di andare in macchina pure a fare la passeggiata. Ciò che non mi trova d’accordo è la volontà di eliminare totalmente o rendere la vita impossibile alle automobili, con le politiche infrastrutturali che menzionavamo prima e con i costi a cui si viene continuamente sottoposti tra imposte e accise, zone e parcheggi a pagamento: checché se ne dica, l’auto resta uno strumento di libertà indispensabile per numerosissime persone. Considero obiettivi fondamentali l’incentivo al ricambio, dato che le auto moderne sono più compatte e meno impattanti sull’ambiente, e l’intermodalità. Nello scenario ideale, infatti, una persona deve essere in condizione di: recarsi tranquillamente in macchina fino a un punto dove posteggiare facilmente; da lì prendere mezzi pubblici efficienti, soprattutto metropolitane, che decongestionano la superficie; ed eventualmente, se la fermata d’arrivo non è vicina alla destinazione finale, poter usufruire di biciclette muscolari o assistite in sharing, su ciclabili non improvvisate, con impianto semaforico dedicato e non progettate solo per ostacolare gli automobilisti. Ah, decisamente meglio le bici dei monopattini: sono più sicure».
Qual è la sua opinione sulle “città a 30 chilometri orari”?
«Pura ideologia. Inutile fissare limiti difficili da rispettare, giusto per riempirsi la bocca e lavarsi la coscienza. Disponiamo piuttosto le “zone 30” dove hanno ragion d’essere e lasciamo i 70 km/h nelle vie ad alto scorrimento, coi meccanismi di sicurezza del caso ovviamente: piuttosto che fare mille regole e spesso non applicarle, meccanismo tipico dell’Italia, teniamone poche e chiare ma facciamole rispettare a dovere! A proposito della mia città, l’Area B (divieto d’ingresso alle tipologie di veicoli più inquinanti nel territorio comunale milanese) è un’altra questione ideologica, che non ha ridotto il traffico e ha messo in difficoltà i cittadini meno abbienti. Tutti abbiamo il diritto di essere sia automobilisti che ciclisti, e tutti dobbiamo essere realisti: è ottimo e lodevole spostarsi molto in bici, così come è naturale e funzionale portare a scuola con l’autovettura due figli con annesse cartelle. Senza che una cosa escluda l’altra e che una categoria debba essere danneggiata in nome delle ideologie: questo alimenta solo i contrasti».
Avete avanzato qualche proposta specifica?
«Certo. Per dirne una, rimaniamo nel palazzo in cui ci troviamo. Qui dietro, purtroppo, la tempesta dello scorso luglio ha abbattuto gli alberi secolari di via Marina: abbiamo chiesto al Comune di costruirvi in partnership un parcheggio sotterraneo, ripiantarvi sopra un nuovo giardino e far partire di lì una pista ciclabile con tutti i crismi, che porti in pieno centro. Una ciclabile più intelligente di quella assurda che passa attualmente in Corso Venezia, che causa parcheggi in mezzo alla carreggiata e scarsa sicurezza in primis per i ciclisti. Al 9 gennaio, attendiamo ancora risposta».
Ci par di capire che non apprezza la direzione “pro ciclisti” di alcune amministrazioni...
«Anziché impegnarsi per una circolazione realmente fluida (che non vuol dire veloce, ma regolare) in certi casi vedo la tendenza a far sentire i ciclisti liberi di trasgredire le norme. Ormai è normale vederli andare in contromano, quando in realtà non si può. O se passassimo una giornata affacciati qui al balcone, vedremmo che l’ottanta per cento di chi passa col rosso sono biciclette. In sintesi: sì a mentalità e infrastrutture che agevolino tutti gli utenti della strada, no a leggi demagogiche e bici al di sopra delle regole».
Parliamo ora delle “leggi per eccellenza” in ambito di mobilità: cosa pensa del rinnovato Codice della Strada, che tra l’altro introduce il fatidico metro e mezzo di distanza nel sorpasso?
«Da quel 1992 in cui entrò in vigore il CdS odierno, il mondo è progredito notevolmente. Approvo queste opportune modifiche e anzi avrei aggiunto qualcosa in più, come l’obbligo del casco quando si va in bici. Sarà inoltre importante comunicare adeguatamente il nuovo codice: noi, nel nostro piccolo, organizziamo corsi e convegni, incontri con studenti e lavoratori».
Del rapporto tra Aci Milano e i ciclisti ci ha detto; e il rapporto con gli enti che li rappresentano?
«Non per volontà nostra, ma di fatto un “dualismo” c’è perché riscontro poca disponibilità al dialogo. Quando li sento dire che “è l’automobilista a dover rispettare le regole, perché pedoni e ciclisti sono i soggetti deboli e sono sempre loro a farsi male, quindi chi guida la macchina deve prestare attenzione alle bici ma non viceversa” mi vedo costretto a controbattere: è una filosofia sbagliata in quanto pericolosa. Qualunque utente della strada deve preoccuparsi della condotta propria e altrui: se tutti fossero attenti e consapevoli allo stesso modo, gli incidenti si limiterebbero alle poche ma inevitabili fatalità. Pedoni e ciclisti, per citare uno dei maggiori fattori di rischio, sono responsabili tanto quanto i conducenti delle autovetture di non doversi distrarre col telefonino».
La tecnologia è fonte di distrazione, ma può anche essere prezioso aiuto secondo lei?
«Sì, ne sono convinto. Parlando di un elemento che interessa parecchio i ciclisti, sono favorevole all’obbligo dei sensori per l’angolo cieco e della “scatola nera”. Naturalmente bisogna dare il tempo alla gente di adeguarsi e assicurarsi che non circolino dispositivi farlocchi, ma ben venga questa innovazione. Sempre ricordandosi, comunque, che al centro rimane l’essere umano: non è che la macchina si accorge al posto mio che c’è un ciclista e si ferma da sola...».
Per concludere, immagini di trovarsi di fronte un fiero automobilista e un fiero ciclista: che messaggio le verrebbe da lanciare a questi due utenti della strada?
«All’automobilista direi di non distrarsi e ragionare a fondo su ciò che fa. Al ciclista direi di resistere alla tentazione di sentirsi “esentato” dal rispettare il codice della strada.»