Colnago, il Maestro

di Pier Augusto Stagi

Ci parla di loro come se fossero lì: e lì ci sono per davvero. E noi qui con lui, che ci parla di loro, come delle inseparabili amiche figlie e compagne di una vita, an­che se la compagna per eccellenza resta “la” Vincenzina, il suo amore eterno, che non manca di ricordare alla vigilia di un traguardo importante fissato il 9 febbraio, quelle delle 92 primavere.
Ci parla di loro, Ernesto Colnago, delle sue biciclette. Sono tutte qui una ac­canto all’altra e io con lui, in questo spa­zio senza tempo, che un tempo è stato casa, fabbrica e dimora e ha cambiato volto per volontà sua e di Ales­sandro, suo nipote. È qui che han­no dato forma e sostanza nell’eleganza de “LA Collezione”: non serve dire di che cosa e di chi, ormai lo sanno in tanti se non tutti; qui sono esposte le biciclette, quelle con l’asso di fiori, nate dalla maestria di questo piccolo grande uomo che nel mondo della bicicletta è sempre stato considerato un gigante.
Si muove veloce e con passi brevi, ma di spazio ne copre a sufficienza, ancora oggi.
«Stare tutto il giorno in piedi a raccontare è bello, ma anche faticoso - mi spie­ga con i suoi occhi vispi, capaci di comprendere e cogliere tutto al volo -. Di tanto in tanto mi devo sedere, perché le gambe non sono più quelle di un tempo, anche se qui, in questo spazio che ha cambiato veste, il tempo mi sembra di averlo perlomeno contenuto e catalogato: domato».
Qui ha costruito per tanti anni i suoi bellissimi telai: prima in acciaio e in alluminio, poi in carbonio. Altro che Taiwan…
«Per anni e anni. L’alta gamma è nata qui, dove c’erano la casa e la bottega, anche se la prima vera sede è nata po­che centinaia di metri più in là. Un bugigattolo di cinque metri per cinque in via Garibaldi 10, di fronte alla più frequentata osteria di Cambiago, “Il du e vint”, il due e venti».
Si è inventato e poi ingegnato.
«Papà Antonio era contadino e io avrei dovuto seguirlo a lavorare nei campi. Aveva fatto il soldato in cavalleria, at­tendente del conte Calvi alla Scuola Militare di cavalleria a Pinerolo. Non a caso aveva la passione per i cavalli. El­vira, la mia mamma, come tutte le mam­me di quell’epoca era la regina della casa, anche se la nostra dimora era quella che era, tutto fuorché una reggia. Una casa che era una cascina con un cortile, in viale Giuseppe Ga­ri­baldi al numero 8. Era una casa famiglia, perché con noi vivevano anche i fratelli di mio papà, Fiorentino, Am­bro­gio e Virginio, oltre al nonno Fi­lip­po. Io nasco il 9 febbraio del 1932. Era un martedì. E come tutti i bimbi dell’epoca cresco con poco ma con tutto. Quando si è bimbi la vita è un sogno, fin quando non inizia la scuola. Ele­men­tari e poi medie, ma alla sera, con il professor Tranquillo Caprotti: eravamo in tre. Cesare Mangiagalli che di­ventò medico, Pietro Carrea, ingegnere meccanico e io che frequentai la prima e la seconda e poi piantai lì tutto. Papà voleva portarmi a lavorare nei campi. Gli diedi per un po’ una mano, ma poi gli chiesi se potevo andare a fare l’elettricista e lui mi disse di sì. Quindi eccomi alla Lesa, l’acronimo di La­bo­ra­to­ri Elettrotecnici Società Anonima, che da Milano in piena guerra si era trasferita a Cambiago: produzione mo­tori elettrici, potenziometri, anche registratori e giradischi. Io però mi specializzai in “catering”, nel senso che tutti i santi giorni all’ora di pranzo portavo panini con la mortadella. Scelsi un prestinaio e un salumiere, dopo aver­ne provati un po’. Questi, per sdebitarsi con me che li avevo scelti e gli avevo procurato lavoro, cominciarono a regalarmi panini e mortadella e per uno che era abituato a mangiare solo polenta e latte non era male».
Era già sveglio…
«Se non ti svegli, dormi. E se dormi… non mangi. A dodici anni vado a lavorare da Dante Fumagalli. Si riparavano attrezzi agricoli. Con me lavora Luigi “Ginetto” Oggioni, che un giorno mi dice: “Andiamo a lavorare alla Gloria di Focesi, in viale Abruzzi, 42. Focesi era una persona buonissima, tanto è vero che lo si chiamava tutti “papà Focesi”. Le cose andavano alla grande. La Gloria competeva con marchi illustri come Bianchi e Legnano. Nel 1936 con Angelo Varetto si aggiudicò la San­remo, ma anche la Bernocchi con En­ri­co Mollo e il Toscana con Cazzu­lani. Era il 25 novembre del 1945 quando mi presentai al cospetto del signor Focesi. Avevo 13 anni ma dissi di averne 14, altri­men­ti non mi avrebbe preso, difatti, mi pre­se!».
Cominciò anche a correre in bicicletta…
«Con la maglia dell’Unio­ne Sportiva Aurora di Concorezzo, uno squadrone. Nel 1947 la prima vittoria alla Coppa Gabellini. Poi passai all’Aurora di De­sio e nel 1950 feci mia la Coppa Mam­ma Isolina Caldirola. Il giorno dopo, era lunedì, Focesi mi fece chiamare e mi mandò da sua moglie Germana, la quale per premio mi diede una maglia di lana grigio-blu della Gloria, un paio di scarpe e un assegno di cento lire. Quando tornai a casa papà per poco non sveniva, temeva che avessi rubato tutto».
Intanto, però, Vincenzina ti aveva rubato il cuore…
«Vincenzina Ronchi: una ragazza bellissima. L’avevo conosciuta quando avevo tredici anni e lei aveva gli stessi anni miei. Ci eravamo conosciuti a scuola e ogni giorno l’aspettavo fuori dall’oratorio. Io correvo in bicicletta e lei mi veniva a vedere. Eravamo fatti per stare assieme».
Ma al cinque per cinque come ci arriva?
«A diciannove anni corro la Milano-Busseto, vince Ettore Comellini, dopo il traguardo cado e mi faccio male ad una gamba. Mi portano all’ospedale di Vimercate e lì mi dicono che mi sono procurato una frattura del perone de­stro. Stecca di le­gno e addio fabbrica. Ma io con le ma­ni in mano non ci pos­so re­stare, così chiedo al caporeparto Angelo Ri­ghi di lavorare da casa, oggi come si direbbe? “smart working”. Lui mi dice. “Proviamo!”. Mi portano delle ruote sul motocarro e io mi metto a montarle in casa. Ad un certo punto, dopo un paio di settimane, mi accorgo che montando e centrando ruote a casa guadagno più che in un mese in fabbrica, così chiesi udienza a Focesi. Trovo subito l’accordo: venticinque biciclette da montare alla settimana restando a casa. E allora, visto che papà era contrario che continuassi a lavorare in ca­sa, affittai una stanza in viale Garibaldi 10 e lì cominciai la mia avventura. All’inizio chiedevo soldi, poi ho cominciato a chiedere materiale, così potevo fare delle biciclette da vendere in paese senza spendere una lira. La prima bicicletta? Nel 1954. Con il mio cognome: Colnago. Intanto lavoravo per conto terzi, per Gloria e Doniselli e il mio nome circolava, nella zona si cominciava a parlare di quel ragazzo che ci sapeva fare con le mani».
Anche se ha sempre usato tanto la testa.
«Quella ci vuole sempre, con quel pizzico di fortuna che devi essere poi bra­vo a gestire. Era la primavera del 1955 e quel mattino esco in bicicletta con un po’ di amici: appuntamento a Osmate, con Fiorenzo Magni, Piazza, Al­bani, Baffi… Mancano pochi giorni all’inizio del Giro d’Italia. Ad un certo punto, prima di Tartavalle ci si ferma ad un abbeveratoio. Magni ha una gam­ba che gli duole e io chiesi ad Albani, con il quale avevo confidenza, se potevo dire al signor Fiorenzo il perché secondo me lamentava quel dolore. Magni era già Magni, un fuoriclasse as­soluto, un uomo di rara intelligenza. Giorgio mi diede il via libera e io timidamente an­dai dal signor Fiorenzo, come lo chiamavo, e gli spiegai che ave­va la pedivella storta, non in asse e quindi la pedalata non era rotonda. Così gli consigliai di seguirmi nella mia piccola officina di Cambiago, dove gli avrei sistemato la pedivella. Magni, stupito e un po’ dubbioso, mi seguì. Quando si trovò da­van­ti al mio negozio esclamò quasi scandalizzato: “Ma questo è un bugigattolo...”. Presi un ferro del mestiere e sistemai tutto. Ma­gni poi riprese la strada degli allenamenti e il dolore gli passò. Il giorno dopo venne da me Isaia Steffano, indimenticato massaggiatore, per portami una missiva: “Ha detto il signor Magni se te la senti di venire al Giro d’Italia”. Non me lo feci ripetere due volte. Mi presentai al Vi­gorelli, dal meccanico di fiducia di Ma­gni Faliero Masi, un artista delle bici. Magni lo aveva chiamato: “Ti mando un bravo ragazzo, ci sa fa­re”. Lui mi accolse così così, Faliero era un po’ burbero. “Non mi far perdere tempo, devo finire di montare quarantaquattro ruote…”. Ci penso io! Ri­sposi. Feci quello che dovevo fare e lo conquistai e Magni quell’anno, dopo tre settimane, conquistò quel Giro. Papà e mam­ma erano felici e speravano che al mio ritorno portassi qualche soldo, invece portai caramelle e qualche marmellata. A quei tempi l’esperienza si pagava. E io avevo fatto un’esperienza con la squadra di Magni, il quale aveva vinto in Giro d’Italia. Im­pa­gabile. Appunto».
Ha fatto anche il meccanico di “mistero”.
«Per Gastone Nencini, detto appunto mistero per il fatto che era silenzioso, taciturno, però in corsa era tosto e te­nace. Dalla Nivea di Magni, che ideò in pratica le sponsorizzazioni, passai alla Chlorodont, con general manager Rolly Marchi, direttore sportivo Tano Bel­loni. In squadra uomini del calibro di Alfredo Martini e Luciano Pezzi, con Baroni e Tognaccini. Fu il Giro della pipì di Gaul, vinto da Nencini. In­som­ma, mi vinsi un altro Giro».
E le cose andarono meglio alla Molteni.
«In verità firmo per il signor Ambrogio nel 1966, poi però chiedo di poter an­dare due anni alla Vittadello, infine nel 1969 questa volta torno per davvero al­la Molteni del mio amico Giorgio Al­ba­ni. Nel 1970 vivo una delle giornate più belle della mia vita, la Sanremo di Michele Dancelli. Io piango come un bambino e il signor Ambrogio piange anche di più. Per quella vittoria nasce l’asso di fiori, grazie a Bruno Raschi, “il divino”, firma principe della Gaz­zetta che alla sera incontro per caso al ristorante. “Asso, perché tu sei un asso tra i meccanici, e di fiori, perché è simbolo di Sanremo e il fiore è il seme che fa per te”, mi disse. E io non me lo feci ripetere due volte».
Ha sempre ascoltato.
«Ascoltato e fatto».
Torniamo ai corridori: Dancelli, ma an­che Motta.
«Talento enorme, classe purissima. Ele­ganza da vendere. Un giorno viene da me Clay Santini, un dilettante di talento e con lui questo ragazzo biondino che cercava una bicicletta da spender poco, perché di soldi non ne aveva. Gliela diedi. Cominciò a vincere e ad ogni vittoria mi pagava due mila lire, alla fine smise di pagarmi, ne restavano ancora 14.000, ma le vittorie che mi regalò furono impagabili».
Lo portò alla Molteni.
«Dissi a Giorgio Albani: “Vai a vedere questo ragazzo, ha stoffa da vendere: è un corridore”. Nel 1964, a soli 21 anni passò professionista. Com’era? Un pu­ledro di razza. Voleva sempre aver ra­gione, faticava a star den­tro alle regole. Ce l’hai presente Gimondi? Bene, era il contrario!».
Fu sfortunato.
«Molto. Se non si fosse fatto male alla gamba che gli rimase sotto la macchina al seguito del Giro di Romandia, avrebbe vinto tutto e molto di più».
Poi ecco Merckx.
«La prima bicicletta in verità gliela avevo già fatta alla fine del 1970. Andai a trovarlo a Barberino del Mugello con Albani e il suo massaggiatore Guil­laume Michiels e lì mi commissionò una bicicletta fatta in un certo modo. Nel 1971, invece, ero alla Molteni e lo accontentai in tutti i modi. Anche a Mendrisio, quando ero in ritiro con la nazionale italiana e Eddy mi chiamò. Ci andai in vespa, con un amico “spallone” che conosceva per ovvie ragioni strade secondarie. Voleva essere sicuro della bici da utilizzare. Me ne indicò tre: “Io ho già scelto, adesso dimmi la tua”. Erano tre biciclette con le ruote posteriori posizionate nei tubi di un calorifero. Io indicai la stessa bici che aveva già scelto lui. Eddy la prese entusiasta ma per sfilarla via fece leva e stortò la ruota. Lavorai fino a mezzanotte per sistemare tutto. Gli dissi solo una cosa: “Domani è l’anniversario del mio matrimonio, se vinci porta i fiori a Vincenzina”. Fu di parola».
Intanto, però, le parole circolano. E si par­la sempre di più di Colnago.
«Lavoro tantissimo, ma ho una fortuna: oltre a Vincenzina, ho Paolo, mio fratello, il mio vero braccio destro. Do­ve non arrivo io, ci arriva lui. Se io mi dedico sempre più a questioni legate allo sviluppo del prodotto e alle sponsorizzazioni, lui mi sostituisce alla gran­de. Un giorno Eddy mi disse: “Non ti offendere, ma a cambiare le ruote in corsa Paolino è più veloce di te”. Ne fui felice».
A fine 1972, il record dell’ora.
«Con la bicicletta più leggera che po­tessi costruire. Limando, saldando e forando creai una bicicletta di cinque chili e 750 grammi. Fu esposta anche al MoMa - il Museo di arte Moderna - di New York. Oggi è qui, in bella mostra a “LA Collezione”, assieme alle altre. Un esemplare di ricerca applicata alla bicicletta. Da allora non passa un 25 ottobre che Eddy non mi chiami per salutarmi e ricordarmi quella fantastica giornata. È come un compleanno».
Ha fatto biciclette anche per le donne.
«Ci ho creduto fin da subito, non è un caso che Mary Cressari stabilì il record dell’ora con una mia bicicletta. Tutto questo grazie ad Alfredo Bonariva, ex gregario di Coppi, che per primo credette nel ciclismo femminile e io non feci altro che seguirlo e assecondarlo. Luigina Bissoli, Morena Tartagni, Ros­sella Galbiati, Francesca Galli… quante ragazze, quante vittorie».
Poi dalla Molteni alla Scic.
«Con Renzo Fornari collaboravo già nel 1969, dando le biciclette, ma nel ’73 il nome Colnago apparve sui calzoncini. Ero diventato una sorta di co-sponsor. Feci un salto di qualità e fui co­stretto a fare una scelta. In squadra an­che un giovanissimo Gianbattista Ba­ronchelli, che avevo scoperto io e alla Scic portai. Nel 1973, da dilettante, ave­va vinto il Giro d’Italia e il Tour de l’Avenir, per molti era il nuovo Merckx, anche se per me ce n’è stato solo uno. Nel ’74 per­se un Giro proprio da Eddy per soli 12”. Corridore pazzesco Eddy, grande il Tista, che però forse è stato poco cattivo».
Ed ecco Beppe Saronni.
«Mi ricordava Costante Girardengo: scatto, potenza e un’infinita furbizia. Il mondiale di Goodwood, un capolavoro. Adrenalina pura. Una progressione che è rimasta negli annali non solo del­la storia del ciclismo, ma dello sport. Un corridore che ho amato tantissimo e che considero parte della mia famiglia, come un figlio. È stato un grande atleta e anche come dirigente ha dimostrato a tutti di essere di un’altra categoria».
Lei è stato anche una sorta di Cristoforo Colombo e Marco Polo: ha scoperto nuovi luoghi dove vendere le sue biciclette.
«In Russia e in Cina e in tutto l’Est. Mi sono sempre buttato, parlando una lingua universale: il brianzolo».
Ha avuto tanti corridori, ma molti hanno corso con altre biciclette: chi avrebbe voluto avere su una Colnago?
«Felice Gimondi e Vincenzo Nibali: due grandissimi interpreti del nostro sport».
Tanti corridori, ma tanti manager, tante eccellenze incontrate.
«Prima Luigi Colombo, il papà di An­to­nio, il signor Columbus. Con lui ne­gli Anni Sessanta progettavo le mie bi­ciclette. I suoi tubi erano al servizio di tutti, da Coppi a Bartali, dalla Fer­rari alla Maserati. Cino Cinelli era il di­stributore mondiale. Poi Enzo Ferrari. Se Tullio Campagnolo ha cambiato la storia del ciclismo con l’intuizione del cambio al grido di “Qui bisogna cambiar qualcosa de drio”, Ferrari ha consentito al sottoscritto di portare la bicicletta in una nuova dimensione, grazie al carbonio. Era il 1986 e organizzammo un incontro a Maranello grazie a Mauro Forghieri. Quel pranzo mi cambiò la vita. Spiegai a Enzo Ferrari che volevo utilizzare per le mie biciclette materiali della Formula 1. Così mi in­trodusse nel mondo del carbonio. Altro incontro fondamentale fu quello con Giorgio Squinzi, il signor Mapei. Con lui vissi anni stupendi, al fianco di un uomo e di una famiglia eccezionale. Quante vittorie, quante soddisfazioni, come quella alla Roubaix del 1995. Quell’anno la vigilia della “regina delle classiche” fu a dir poco tormentata. Tantissimi i dubbi sui miei telai in carbonio, sulla forcella dritta, sul fatto che non avevamo le forcelle ammortizzate. Giorgio (Squinzi, ndr) era preoccupato. Continuavano a chiamarlo dalla Fran­cia per dirgli che le nostre biciclette si sarebbero spezzate in due su quelle superfici. Io gli giurai che non era co­sì: i test avevano dimostrato la loro affidabilità. Bene, Franco Ballerini vinse. E di Roubaix ne vincemmo altre quattro. Da quel momento, nulla fu come prima».
Anche la forcella dritta nacque da una “dritta” di Ferrari.
«Esattamente e con la Ferrari Engi­nee­ring nacque anche la Concept, una bici fin troppo rivoluzionaria, con freno idraulico e cambio desmodromico. Da quella bicicletta però presero spunto e vita la C40, la C50, la C59, la C60…».
Su strada è stato anche il primo a introdurre i freni a disco.
«È così. È un fatto di sicurezza, così come è un fatto di sicurezza il peso. Sotto i settecentocinquanta grammi per il telaio non è possibile stare. La bicicletta non è sicura».
Tra i personaggi c’è anche un Papa divenuto Santo: Karol Wojtila, Papa Gio­van­ni Paolo II.
«Gli feci una bicicletta d’oro, che gli donai il 29 agosto del 1979. Qualche anno dopo la riacquistai e oggi è visibile in una teca a “LA Collezione”».
Tra i tanti personaggi incontrati, c’è un concorrente con il quale ha avuto un rapporto particolare?
«Credo di aver avuto un rapporto buo­no con quasi tutti i miei colleghi, ma con Ugo De Rosa ho avuto un rapporto molto particolare. Eravamo molto di­versi: io più esuberante e chiacchierone, lui molto più misurato, pacato e schivo. In ogni caso è stato un grandissimo telaista, uno che sapeva il fatto suo. Un uomo tutto d’un pezzo. Un uo­mo».
Ha mai sofferto di gelosia?
«Mi creda, mai».
Un amico vero.
«Giorgio Squinzi e sua moglie Adriana Spazzoli».
Se deve dire grazie.
«Alla mia famiglia. A Vincenzina con la quale ho condiviso sessant’anni stupendi della mia vita. Ad Anna, mia fi­glia e a Vanni, mio genero. Ad Ales­san­dro ed Eleonora che mi hanno do­nato due nipotine fantastiche. A tutti i miei collaboratori: sono stato fortunato…».
Cosa è la felicità?
«Fare quello che ho fatto, e oggi vivere ricordando quello che ho fatto».
Cosa è per lei la ricchezza?
«La salute».
Ha dei rimpianti?
«Forse quello di aver lavorato troppo. Oggi, forse, starei un pochino di più di tempo con Vincenzina. Ma con il sen­no di poi…».
Si sente più Einstein o mastro Geppetto?
«Forse mi sento più Walt Disney: in fondo anch’io ho fatto sognare grandi e piccini».
Chiuda gli occhi: cosa vede?
«Mi vedo nel mio cinque per cinque con Fiorenzo Magni che viene a sistemare quella pedivella storta. Fiorenzo quel giorno mi ha raddrizzato la vita, anche se io dopo sono stato bravo a pedalare. Vedo anche don Mazzi, un sacramento di un prete. Lo vedo e lo sento dire messa nella sede della Col­na­go a pochi giorni dal Natale, come per anni ho fatto, con la mia Vincen­zina e tanti amici che oggi non ci sono più. Sento la sua voce e mi fa bene, mi conforta e mi dona pace…».
Li riapra.
«Sono qui, in questi 900 metri quadri de “LA Collezione”. È lo scrigno dei miei sogni realizzati che si son fatti ri­cordi. Qualcuno lo mostro, qualcun al­tro lo mostrerò. Qui sento ancora il ru­more dell’officina, anche se ora re­gna il silenzio. Penso che sia il sottofondo ideale per raccontare delle belle storie».

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