Alessia Piccolo: «Una rivoluzion a colori e una rivoluzione al femminle: così Alé ha cambiato il mondo»

di Pier Augusto Stagi

È la Numero 1, ma nulla c’entra con la prima moneta guadagnata da Paperon de’ Papero­ni. È la numero 1 e basta, perché è stata la prima ad essere assunta da Federico Zecchet­to, il signor Dmt, Cipollini, Alé e molte altre cose. Alessia Piccolo oggi è anche la numero 1 del maglificio che evoca il suo nome, che ricorda le grida dei tifosi sulle strade, un incitamento co­stante e per tutti: dal primo all’ultimo.
È la numero uno di Apg visto che il suo cartellino aziendale riporta ancora oggi quel numero, ma da tre anni è la numero uno certificata da una direzione generale e dalla carica di amministratore delegato di questa giovane azien­da che solo il prossimo anno ta­glierà il traguardo dei suoi primi dieci anni di vita. Lei questo mese è la no­stra “Capitana Coraggiosa” e se avrete la pazienza di seguirci in questo racconto, scoprirete che di coraggio questa eterna ragazza ne ha da vendere.
Dove nasce?
«A Mantova il 26 maggio del 1966, da una famiglia che grazie al cielo non ha fatto mai mancare niente né a me né a mia sorella Anna Maria, di tre anni più giovane, che lavora anche lei in Apg dal 1999. Papà Ennio ha fatto per anni l’agente di commercio, ma poi è riuscito a metter su una bella azienda metalmeccanica, la ArcoSald, che aveva sede a Bagnolo San Vito, casello Mantova sud. Mamma Rosetta ha lavorato come operaia alla Corne­lia­ni, un’azienda di abbigliamento da uomo, fin quando papà non ha aperto appunto la sua attività. Da quel mo­mento si è solo dedicata alla famiglia».
Le scuole a Mantova?
«Chiaramente: elementari, medie e poi le superiori. Ho un diploma in ragioneria, conseguito all’“Alberto Piten­ti­no”».
Come è stata la sua infanzia?
«Serena e tranquilla, potrei dirle gioiosa, anche se questo è più un sentimento rispetto a quello che nella realtà ri­cordo. Non so il perché, ma mia so­rella Anna Maria si ricorda tutto, per filo e per segno, quello che facevamo, dove e con chi. Io, invece, ho solo ricordi va­ghi che si accavallano, che a tratti si confondono anche. Però non è un problema: c’è Anna Maria. Io chiedo a lei e tutto si fa più chiaro… Ricor­do bene che per un certo periodo ab­biamo vissuto tutti assieme in caserma…».
In caserma?
«Sì, nonno Giuseppe era maresciallo dei carabinieri e per qualche anno ab­biamo vissuto tutti nella corte della ca­serma di via Zambelli a Mantova. Que­sto è uno dei ricordi più dolci che ho del­la mia infanzia e adolescenza. Un clima di famiglia allargata bellissimo».
Era severo nonno Giuseppe?
«Era dolcissimo. Un uomo paziente e rigoroso: tutto d’un pezzo. Ricordo che mi portava a disputare le corse campestri: non ero un gran che, ma mi divertivo come una pazza. Per me l’importate era dare il massimo. Se il mio massimo mi portava ad ottenere poco, non era assolutamente un problema, non lo è mai stato».
Un vero spirito sportivo.
«Ancora oggi sono così. Mi applico su tutto, cerco di dare sempre il massimo e quello che porto a casa è tutto di guadagnato. Sono una che non si tira mai indietro, che non abbandona, che si but­ta e osa ma sa anche che c’è sempre una seconda, una terza, una quarta possibilità. L’importante è provarci, fino alla fine».
Quando ha cominciato a lavorare?
«Appena diplomata mi sono presentata a Stradella, in provincia di Mantova, dove Federico Zecchetto aveva il quartier generale dell’allora Diamant. Ero venuta a sapere che stava cercando personale per la Apg, l’azienda di maglieria e io non esitai a presentarmi. Mi assunse immediatamente. Sul cartellino ho difatti il numero 1, mentre Letizia Balloni che fu assunta con me aveva il 2. In un’azienda piccina e appena nata andai ad occuparmi un po’ di tutto. Tutto quello che c’era da fare si faceva: dalle spedizioni al controllo qualità. Poi, quando Zecchetto ha deciso di por­tare la produzione in Apg, sono stata avanzata in ufficio e mi sono sempre più occupata della produzione e dell’avanzamento dei lavori. Dei clienti si occupava chiaramente Federico (Zec­chetto, ndr), fin quando nel 2014 si è deciso di lasciare il marchio Gior­dana e crearne da zero uno nuovo: ec­co che nasce Alé. Da quel momento, nonostante da anni ormai mi occupassi di tutto, sono diventata direttore commerciale, poi generale e da tre amministratore delegato di un’azienda che sen­to davvero sulla mia pelle».
Beh, una gran bella soddisfazione: da im­piegata numero uno a numero uno di uno dei marchi più apprezzati dal mercato.
«Sì, non le posso negare che di questo vado molto orgogliosa, ma sono anche cosciente del fatto che sono stata molto fortunata di aver trovato sulla mia stra­da una persona, un imprenditore come Federico Zecchetto. Senza la sua fiducia, senza i suoi insegnamenti, non sarei andata da nessuna parte. Poi ho avuto anche un’altra fortuna: una squadra pazzesca, composta da persone ca­paci e appassionate, che hanno sempre avuto un profondo senso di appartenenza. Senza di loro non sarebbe stato possibile nulla di tutto quello che sia­mo riusciti a fare. Così come un grazie lo devo a mio marito, Renzo, che mi ha sempre appoggiato in maniera incondizionata. Mi ha spalleggiato, in un prezioso e fondamentale gioco di squadra».
Lei ha portato colore al ciclismo…
«Ho soprattutto pensato ad una moda per lui e per lei. Ho cercato di dare una personalità all’abbigliamento maschile, magari osando anche un pochino in un ambiente molto ben definito e chiuso, mentre con le donne mi sono potuta sbiz­zarrire: con loro ho proprio pensato a capi di moda da vestire in bicicletta. Mi sono sempre detta: dobbiamo essere belle in sella e anche quando ci fermiamo ad una fontana a riempire la borraccia. Il colore poi non è stata solo una scelta di moda, ma anche rivolta alla sicurezza. In un mondo in cui re­gnava il nero, perché faceva macho, noi non solo abbiamo portato il colore, ma il fluo, per renderci visibili. Non per una questione egoriferita, ma per la si­curezza. Il primo passo verso la sicurezza è farsi vedere. Essere ben visibili. Noi di Alé l’abbiamo fatto cercando di abbinare questa esigenza fondamentale con l’eleganza e lo stile, che è poi di­ventato uno stile Alé, molto ben identificato e riconoscibile. Diciamo pure identitario».
Qual è la sua più grande soddisfazione?
«Credo di averne avute tante nella mia vita lavorativa, ma chiaramente la più grande è essere arrivata ad essere quella che sono, dove sono».
Parlava di complicità con suo marito: quando vi siete conosciuti?
«Sul finire del 1994, dopo sei mesi, il 7 maggio ci siamo sposati».
Ben veloci…
«Se mi avesse conosciuto meglio non mi avrebbe probabilmente sposato…».
Non dica così…
«Chiaramente scherzo. Diciamo che ci siamo riconosciuti immediatamente: avevamo le idee ben chiare e abbiamo deciso di fare un passo importante. Galeotta fu una serata in discoteca. Una mia collega mi aveva invitato ad andare con lei al Caravel di Mantova. Era un locale molto frequentato, all’epoca uno dei punti di riferimento per intere generazioni (era nato nel 1972, ndr), anche se di lì a poco avrebbe chiuso i battenti. Bene, in quell’occasione ho conosciuto Renzo, un bel ra­gazzo che abitava a Cerea, in provincia di Verona, e non ci siamo più lasciati. Oggi lui lavora alla Meccanica Fadini, ro­botica, sicurezza e automazioni e tutti i fine settimana usciamo in bicicletta assieme, anche se ormai lui va troppo più forte di me e si lamenta. Dice che vado piano anche con la bicicletta assistita. La sa una cosa?...».
Cosa?
«Ha ragione».
Renzo amava il ciclismo?
«Diciamo che per amore è sceso dalla moto ed è salito in bicicletta, per stare con me. Oggi è un cicloamatore incallito: esigente e rompiscatole come sanno essere solo i cicloimpallinati».
Lei che passioni ha?
«In primis ho il mio lavoro. Sono innamorata di quello che faccio e non sono mai stanca di fare ciò che ho la fortuna di fare. Poi, nel tempo libero, adoro fare shopping: sono un filo compulsiva. Quando posso mi piace anche ballare, ma ormai mi capita sempre di meno. Diciamo che è la vita che mi fa ballare: da una parte all’altra. Non sono mai ferma. Tra una corsa e una presentazione, un incontro commerciale e qualche meeting con fornitori. Si balla sempre».
A proposito di musica: gruppo musicale?
«In cima a tutti e tutto ci sono i Pink Floyd: li adoro. Quando voglio rilassarmi, mi prendo un libro e li ascolto in sottofondo. Delizia pura».
Una cantante?
«Aretha Franklin e Amy Winehouse: due voci che entrano dentro. Che parlano senza parlare».
Musica italiana niente?
«Renato Zero e Zucchero, anche se i miei idoli assoluti sono due e due soltanto. Nessuno come loro: Lucio Dalla e Lucio Battisti. Posso dire che però ho riscoperto recentemente Orietta Berti?... ».
Certo che lo può dire…
«Troppo brava, troppo simpatica e ironica: mi trasmette solo cose belle. Di que­sti tempi non è cosa di poco con­to».
Ha un attore del cuore?
«Robin Williams».
Attrice?
«Julia Roberts».
Il posto del cuore.
«L’Australia, mi piacerebbe tornarci e un giorno ci tornerò. L’Italia, invece, la amo tutta. Fatico a dirle cosa preferisco: è così bella, anche se così maltrattata…».
È solosa?
«Se sono golosaaaa? Mi chiede se sono golosaaa… Io potrei vivere solo di ge­lato. Guai se non ho un po’ di gelato alla mia portata. È l’unico farmaco in grado di alleviare il mio stress quotidiano. Gusti preferiti: bacio e yogurt».
Un piatto.
«I tortelli di zucca».
Un vino.
«Non sono assolutamente un’intenditrice e bevo per giunta poco, il minimo sindacale. In ogni caso un bicchiere di champagne lo bevo volentieri, mentre se devo scegliere un rosso le dico un Amarone».
Francia e Italia.
«Mi piacciono entrambe».
Il corridore preferito?
«Siamo i fornitori di Bahrain e Jayco AlUla, quindi tifo in maniera molto interessata per chi veste le nostre maglie. Diciamo che mi è spiaciuto tanto che sia stato co­stretto a smettere Sonny Col­brel­li, quello sì. E non le nascondo che Matej Mohoric, oltre ad es­sere un atleta eccezionale, è un ragazzo squisito. E poi ne ho uno che è in cima a tutto e tut­ti».
Chi è?
«Eddy Merckx. E ho detto tut­to. È il numero uno dei numeri uno, il più vincente dei corridori della storia: lui è uno di casa, è un amico di Federico Zecchetto e di tutte le nostre realtà. A lui è anche intitolata la nostra Gran Fondo. In­som­ma è il nostro punto di riferimento, inarrivabile».
Mi diceva che soffre di shopping compulsivo: cosa ama comprare?
«Vestiti, ma soprattutto sono malata di scarpe: ne avrò 300, di tutti i tipi: dalle sneakers a quelle dal tacco 12. Ho un armadio solo per le scarpe. Ma anche con i vestiti non sono messa male…».
Pensa di avere una clientela Alé come lei…
«Le donne sanno trattarsi bene, si san­no coccolare e non si tirano mai indietro, nemmeno per una maglietta da ci­clista: purché sia bella».
La bicicletta quando la scopre.
«Quando inizio a lavorare in Apg, ma nel ’98 comincio a pedalare sul serio. La mia prima gara è all’Aprica: scalo niente di meno che il Mortirolo. Sarò sta­ta in bici nove ore, se non sono mor­ta lì…. Io di testa sono forte, di gambe un po’ meno. Diciamo che sono una bella zuccona, ho una buona tenuta mentale, anche se le gambe sono quelle che sono. Però il motto testa bassa e pedalare lo conosco molto bene e l’ho fatto mio: anche nel lavoro».
Letture?
«Non sono una lettrice super incallita, ma di tanto in tanto un buon libro me lo regalo. Soprattutto adoro Oriana Fallaci: mi sono letta tutto ciò che ha scritto. Mi piace per come scrive, per quello che scrive e per la donna che è stata. Un esempio».
Un film.
«L’attimo fuggente, ogni volta che mi ca­pita di rivederlo mi commuovo. È più forte di me».
Nero o colori?
«Che domande: colore! Il nero lo detesto: troppo facile! Troppo impersonale. Io amo il rischio. Amo osare. La moda deve essere un gioco continuo di colori. Con i colori si gioca, si sogna, ci si traveste. Oggi sono così, domani sarò diversa. Noi donne abbiamo questa cifra distintiva che ci rende uniche: essere diverse a seconda delle situazioni. Siamo dei piccoli camaleonti. Que­sto concetto l’ho trasferito chiaramente anche in Alè, sia in campo femminile che maschile. Le donne si sono sentite finalmente considerate, coccolate e capite, gli uomini hanno compreso che ci si può prendere anche meno seriamente. Che il nero snellisce ma stufa. Io ho portato grafiche e colori nuovi, soprattutto il fluo che è stato per il mondo della bicicletta un taglio netto con il passato. Alé ha portato l’abbigliamento ciclistico nel futuro? Questo non lo so o per lo meno non sta a me dirlo, ma di certo abbiamo contribuito a questo cambiamento, a questa trasformazione».
Provi a riassumere in tre momenti la sua carriera.
«La prima volta che ho conosciuto Zec­chetto. Sapevo che cercava personale e io sono andata subito da lui che mi assunse seduta stante. È stata la mia fortuna. Poi il giorno che è morta mia nonna Giulia: l’ho amata come poche altre persone al mondo, le ero legata in modo speciale. Nel cuore mi è rimasto il giorno in cui è mancata: mi ha atteso per donarmi un ultimo saluto, per dar­mi un’ultima carezza (lo dice mentre la voce le si spezza per l’emozione, ndr). Infine il mio matrimonio, a Bon­ferraro di Sorgà, con Renzo».
Ha un sogno nel cassetto?
«Li ho realizzati. Sicuramente quando andrò in pensione viaggerò tantissimo».
Ma andrà mai in pensione?
«Penso e spero di sì, anche se il mio lavoro mi piace un sacco. Diciamo che mi prenderò un pochino più di spazi, un pochino più di tempo per noi, ma chiaramente è ancora un po’ presto per pensare alla pensione. Ora il mio so­gno è crescere. Portare sempre più in alto il marchio Alé».
È già là in cima.
«Ancora di più. Molto di più. Sempre di più. Fin quando avremo colori».

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