Fabio Baldato: «Un Oscar che premia lo staff e tutto il team»

di Nicolò Vallone

Nella notte degli Oscar tut­toBICI venerdì 24 novembre al Prin­cipe di Savoia, Fabio Bal­dato è stato premiato come direttore sportivo dell’anno: selezionato dalla nostra giuria insieme a Bramati, Cozzi, Ga­sparotto, Tosatto e Zanatta, scelto dal nostro pubblico nella votazione finale: suo quindi il Gp Fon­da­zione Iseni y Nervi. Qui di seguito, ecco l’intervista ufficiale al 55enne vi­cen­tino (nato a Lonigo, vive ad Ar­zignano) che solo in parte avete ascoltato nella puntata 193 di Bla­Bla­Bike.
«Questo Oscar è anche un premio all’affiatato - e molto italiano - staff UAE, ottimamente gestito da Mauro Gianetti e Joxean Matxin, ed è un premio al primato nel ranking a squadre UCI 2023. Siamo felici di aver raggiunto un traguardo che ci avevano richiesto dagli Emirati: il regolamento, che avevamo letto sia noi che i competitor, considera le prestazioni dei migliori ven­ti di ciascun organico, noi abbiamo puntato su più ragazzi possibile e ab­biamo ottenuto 57 vittorie con 16 atleti diversi. C’è il Pogacar ma ci sono pure i McNulty e gli Ulissi».
Voi e la Jumbo Visma incarnate due mo­delli, mediterraneo e nordico?
«La radice “latina” ci porta a mettere un po’ più foga e passione, loro più studio e calcolo. Bravi loro a dominare i grandi giri, altrettanto noi a diversificare: non dimentichiamo la tripletta Fiandre-Amstel-Freccia di Tadej (e chissà come sarebbe andata la Liegi senza la caduta...) suggellata infine col tris al Lombardia».
Così come ci sono le diverse tipologie di corridore, ci sono diverse tipologie di di­rettore sportivo?
«Ci sono quelli che preparano meglio le corse a tappe e quelli con maggior esperienza nelle classiche, tra cui il sottoscritto. Da corridore ho vinto quaranta gare, con successi di tappa nei tre grandi giri e secondi posti a Fiandre e Sanremo: nel mio mestiere attuale met­to soprattutto la conoscenza di percorsi e situazioni nelle corse da un giorno. Non c’è il più furbo o il più sveglio, semmai c’è il più esperto e il più freddo: alla prima volta nessuno è più bra­vo degli altri, ma il ripetersi delle dinamiche aiuta a lavorar bene».
Nota dolente: il suo punto di vista sui due secondi posti di Pogacar dietro Vingegaard al Tour de France?
«Premetto che non ero presente al Tour. Quest’anno la frattura al polso a fine aprile ha giocato un ruolo fondamentale: veniva da una primavera fantastica, ma oltre un mese senza andare in bici non gli ha consentito di presentarsi al Tour con la miglior resistenza. Nel 2022 aveva forse peccato di troppo impeto e consapevolezza della propria forza, ma l’esperienza insegna a calcolare me­glio e un fuoriclasse profondo come lui si ren­de con­to degli er­­rori per non com­metterli una se­conda volta».
Nota lieta: col trion­fo al Fian­dre, il fenomeno slo­veno ha ag­giunto una nuova monumento al suo palmarès e lei ha realizzato un au­tentico sogno...
«Indimenticabili la Roubaix 2017 di Van Avermaet ai tempi della BMC e le altre im­prese di Tadej nelle classiche, ma la “Ronde” è da sempre la mia corsa del cuore: il percorso, il pubblico, il clima fin dalla vigilia... per me è il massimo, mi viene la pelle d’oca quando penso a quei muri! Ricordo la gioia quando, da corridore in Lampre, potei contribuire alla vittoria di Alessandro Ballan. Con me, lo stesso Van Aver­maet ha fatto diversi podi, Pogacar ci è an­dato vicino nel 2022 in surplace con Van der Poel e quest’anno l’ha portata a casa: già per questo è stato uno straordinario 2023.»
In definitiva, com’è essere il direttore sportivo di Tadej Pogacar?
«Facile perché è il numero uno e sembra di stare alla PlayStation, difficile perché “puoi solo sbagliare” e hai ad­dosso la responsabilità della corsa. Il nostro compito principale a volte è di contenerlo e indirizzarlo, ma solo se necessario: quando in una fase decisiva si sente bene e ritiene sia il momento di partire, non puoi dirgli di non muoversi. Il suo segreto, oltre all’istinto da predatore, è divertirsi a cercare nuove frontiere e stimoli, come quando in questa stagione ha deciso di esordire sugli sterrati spagnoli, seppur di categoria minore. Privilegia le gare ancora assenti nel suo albo d’oro e, non subito, ma in futuro farà la Roubaix».
E il compito della dirigenza è costruirgli una squadra all’altezza: quest’anno ab­biamo visto un super Adam Yates.
«L’arma in più. Ha sia fatto da spalla a Ta­dej che portato in saccoccia punti preziosi: podio al Tour, vinti Roman­dia e Montreal, tappe a Burgos e al UAE Tour (che per noi è come un cam­­pionato del mondo) sempre pronto a performare e trasmettere tranquillità.»
Diamo lustro a un nome meno mediatico ma assai prezioso: Grossschartner.
«Vero uomo squadra, fin troppo! Po­trebbe tenersi qualcosa in più per lui, ma ha l’indole del mettersi a disposizione: all’Emilia ha tirato dal chilometro trenta per controllare la fuga e l’ha fatto fino agli ultimi trenta. Un altro magari ti fa cento chilometri poi pensa alla doccia, lui è andato oltre le mie aspettative».
Che sensazione le ha lasciato il finale di stagione lombardo-veneto, che ha vissuto in prima persona e non ha visto solo il Lombardia di Pogacar ma anche le doppiette Formolo-Hirschi in Coppa Ago­sto­ni e Veneto Classic?
«Sono contento perché ci ha permesso di completare l’ambita missione ran­king, su strade vicine a casa mia. Da­vide ha potuto prendersi una meritata doppia gloria personale, Marc ha ri­cambiato con spirito professionale i favori ricevuti in passato. L’Agostoni è stata una delle mie vittorie più belle in ammiraglia: in tanti stavano bene e alla fine è andato a vincere “Roccia” che sulla carta era un gregario e alla fine si è mostrato il più forte, usando con in­telligenza i compagni. In Veneto eravamo tranquilli e liberi, pressoché certi del primato UCI, e hanno servito il bis».
Come Formolo è ai saluti Matteo Tren­tin.
«Dispiace per entrambi. Ci sta che Mat­­teo abbia accettato un progetto in­teressante, mi mancheranno i nostri co­struttivi e coloriti confronti in dialetto, visto che la sua Valsugana confina con la mia provincia di Vicenza».
Dei nuovi acquisti, i più esperti sono Pa­vel Sivakov e Nils Politt.
«Sivakov molto adatto a lavorare di fondo su percorsi veloci e tenere in fila il plotone anche col vento. Politt, insieme a Tim Wellens, è un nome interessante per le classiche. Per quest’ultimo aspetto, tra i giovani appena ingaggiati mi stuzzicano Filippo Baroncini e Antonio Morgado.»
State introitando ulteriori gambe per la salita a scapito delle ruote veloci...
«Per avere il velocista di spessore devi costruire un roster di passisti in grado di preparare la volata dal­la partenza agli ultimi metri, ma noi abbiamo deciso di spingere su­gli scalatori per essere competitivi in tutti i grandi giri. Come sprinter non sarà più con noi Acker­mann e resterà Molano, uno che garantisce vittorie non così numerose ma di peso: ha fatto bene all’UAE Tour, alla Vuel­ta e ha vinto a Denain che è una mini-Roubaix. Si è dimostrato così versatile da poter essere utilizzato, con l’aiuto dei gemelli Oliveira, in quelle classiche non di massima difficoltà come De Panne, Gand-Wevelgem o Harelbeke.»
E in una squadra inevitabilmente Po­ga­car-centrica, come si gestiscono uomini classifica come Joao Almeida e Juan Ayu­so?
«Aspetto positivo della nostra squadra è l’assenza spesso di ruoli preimpostati: tutti hanno il loro giusto spazio. Ov­viamente chi va al Tour deve dare la precedenza a Tadej, ma Matxin è maestro nello stilare i programmi migliori per ciascuno».
Ma c’è qualcuno che vuole andare al Giro d’Italia?
«Noi direttori sportivi (ride, ndr)».
Come vi trovate con le bici Colnago?
«Non avendo mai avuto il piacere di usarle da corridore, è stato bello provarle in allenamento come diesse della UAE: le considerazioni di Boonen sui “2 km/h mancanti” saranno frutto di analisi di anni addietro senza confronti reali, io posso dirvi che faccio oltre i quaranta all’ora col minimo sforzo perché volano da sole! Siamo ben forniti ed equipaggiati, da Colnago e dagli al­tri partner tecnici».
Quanto è cambiato il suo mestiere da quando cominciò quattordici anni fa?
«Allora il direttore sportivo si occupava ancora di tantissime cose, adesso ci sono molteplici figure che possono concentrarsi nel dettaglio ognuna nel suo campo. Noi diesse siamo sempre più attenti nello studiare mappe e dislivelli, conoscere gare precedenti e av­ver­sari, analizzare i report dei preparatori sulle performance».
Il rapporto diretto coi corridori rimane una priorità?
«Io amo rendere partecipi i corridori di tattiche e strategie, ed essere un po’ psicologo per aiutarli a risolvere eventuali malesseri. Se si portano in corsa troppi pensieri negativi o non sono convinti di come vuoi impiegarli, non daranno mai il 100%.»
La preoccupa la generale “crisi di numeri alla base” del nostro stupendo sport?
«I motivi li sappiamo: oggigiorno il pensiero di mettere in bicicletta per strada i tuoi figli non ti fa quasi dormir la notte. Io stesso ho una nipote esordiente che ha grande passione, ma i genitori giustamente sono sempre in pensiero. Non è facile creare percorsi per invogliare i piccoli e le famiglie, ma l’ideale sarebbe realizzare sempre più ciclodromi: due-tre chilometri, all’aperto ma protetti».
Dei suoi ex compagni, di chi conserva il ricordo migliore?
«Cito un paio di capitani dei miei primi anni tra Del Tongo e MG Boys: Franco Ballerini, che mi ha fatto da chioccia quando sono passato professionista, e Johan Museeuw, che nelle gare minori s’impegnava a tirarti le volate come tu facevi per lui in quelle più importanti. Mu­seeuw mi ha insegnato la mentalità che mi sono portato in ammiraglia, il leader che sa mettersi a disposizione è un leader per cui i compagni daranno il 110%».
Da quale direttore sportivo ha imparato di più?
«Seppur tra amore e odio, Giancarlo Ferretti. Mi ha diretto per sette anni, mi chiamava “l’acerrimo sindacalista” perché mettevo i puntini sulle i, specie quando ero convinto di aver ragione. Con la filosofia del “tutti per uno, uno per tutti” faceva girar bene la squadra: c’erano capitani assoluti come Bugno, Sorensen e Bartoli, ma c’era un’armonica rotazione che metteva chiunque in condizione di stare su ottimi livelli per l’intera stagione».
Chi è Fabio Baldato fuori dal ciclismo?
«Spero un buon padre (per Anna e Se­bastiano) e un buon marito (per Raf­faella) sicuramente un agricoltore mancato: nei ritagli di tempo curo un piccolo oliveto che piantammo negli anni No­vanta io e papà Antonio, venuto a mancare tre anni e mezzo fa. Mi ci de­dicavo insieme a lui nelle tre settimane di stacco al termine della stagione, e continuo a farlo: è un modo per te­nere viva la memoria di colui che peraltro mi iniziò al ciclismo, ma è anche qualcosa che mi completa, mi tiene im­pegnato e rilassato allo stesso tempo, mi fa staccare dalle bici quando occorre, mi fa star bene. Stando tanto tempo lontano da casa, la miglior vacanza per me è questa: l’oliveto, far legna e cercar funghi. Buone attività di campagna che papà mi tramandò quando ero bambino.»
Mi immagino lei che, osservando i suoi ulivi, pensa “quasi quasi faccio attaccare Majka su quell’arrivo al Polonia...”.
«Non sei lontano dalla verità. Nell’o­li­ve­to, o quando vado in bicicletta da so­lo, la mente si libera e le idee scorrono meglio.»
Un incanto agreste “spezzato” alla fine di questo mese, oltre che dalla notte degli Oscar tuttoBICI, dal primo meeting tra direttori UAE con vista sul 2024 nella sede meneghina di Ma­gnago. A dicembre sarà naturalmente ritiro invernale di squadra: dal 9 al 20 a Benidorm e dintorni. Il tran tran di al­lenamenti, programmazione e pianificazione dei lavori può avere inizio.

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