IL TERZO TEMPO CHE NON C'E' PIU'
di Gian Paolo Ormezzano
Da sempre si esalta il terzo tempo del rugby, un rituale che dà a questo sport un qualcosa di speciale: il senso cioè, fortissimo, della fratellanza tra atleti - anche e soprattutto rivali - supersite alle fasi pur acri della partita appena finita con i suoi due tempi regolamentari. Lo stereotipo più diffuso è quello di un incontro fra i giocatori tutti, più qualche tecnico e dirigente (e magari anche l’arbitro e i suoi collaboratori), nei locali degli spogliatoio, con scambio comunque di pacche sulle spalle e con innumeri brindisi, liquido preferito la birra.
Ci sono molte cose anche bruttarelle, della partita appena finita, da archiviare, in uno sport che esalta il contatto fisico e che fa della violenza una sua caratteristica. Il tasso alcolico del terzo tempo cresce a mano a mano che decresce il tasso di rivalità, talora anche di rabbia, di livore, vissuto in campo. Il terzo tempo del rugby molte volte ha un prolungamento con il banchetto comune in cui gli orchi giocano ancor di più al gioco di essere comunque sempre fratelli, missionari pacifici per conto della famiglia tutta del rugby.
Si cerca di riprodurre il terzo tempo in altri sport, meglio se sempre di squadra (anche se per me il terzo tempo più intenso resta quello del pugilato, quando i due, gonfi di botte reciproche, si abbracciano sul ring quale che sia il verdetto). C’è anche recita, finzione, formalismo, magari ipocrisia. C’è la televisione a farsi palcoscenico di qualsiasi commedia, nel segno degli ascolti da perseguire. Ma c’è (e ci siamo) uno sport che non riesce a darsi un terzo tempo molto suo e intanto molto valido, al di là dello stanti rituale delle interviste “a caldo”, dei “processi “ a freddo. Ed è il ciclismo.
Siccome sicuramente menti eccelse, sublimi tecnologie, alleanze di cervelloni e supermacchinari stanno progettando anche per il ciclismo un terzo tempo (ora che persino il rigidissimo Tour de France ha aperto gli spazi subito dopo il traguardo a mogli, amanti, prole, amiconi ed amichetti, testimoni insomma della grandezza del campione come anche della serena piccolezza del battuto), mi pare giusto dire che nel mondo delle corse a tappe il terzo tempo c’era, ed era molto speciale, soprattutto viveva magari il giorno dopo nello sfruttamento giornalistico. Era il terzo tempo messo insieme dal giornalista solitamente giovane, spinto dai cantori che lo comandavano, con la visita agli alberghi delle squadre, o almeno delle squadre con i campioni più impegnati. Lo si effettuava nel pomeriggio avanzatissimo, quando i corridori affamati erano già a tavola e i cantori stavano decidendo dove cenare. Durava poco il terzo tempo, due domande e quattro chiacchiere sulla giornata, i corridori dovevano essere lasciati in pace, ma poi si apriva il mercato dello scambio fra i giornalisti giovani rampanti, scambio di dichiarazioni raccolte e anche impressioni recepite, roba tutta da elaborare - sempre scambi - il mattino dopo nella località di partenza. Nel diluitissimo terzo tempo il giornalista raccoglieva echi della tappa, stimolava ricordi peraltro ancora belli caldi, annotava curiosità inedite. Tardi per l’articolo ormai da un bel po’ trasmesso al giornale, ma largamente in tempo per l’articolo del giorno dopo, specie se la cronaca della tappa era povera. Venivano interpretate e usate frasi che, rubacchiate ai ciclisti mentre mangiavano, nella notte erano lievitate gonfiandosi di sottintesi, paure, minacce, confessioni assortite. Erano magari frasi spacciate come se raccolte in corsa, emesse dai corridori, e i lettori ci credevano, ci stavano, pensando che davvero il giornalista avesse intervistato in corsa il pedalatore.
Adesso nada de nada: dopo la corsa, diaspora delle squadre in sparpagliatissimi alberghi intorno alla località di arrivo e a quella (diversa quasi sempre, e spesso lontana), di partenza, ognuno a cercare il suo piatto ed il suo letto, ognuno dei pochi giornalisti almeno idealmente davvero al seguito e non imbullonati davanti alla televisione. Ma è il progresso, bellezze.