di Giulia De Maio
La stella più luminosa della 52a Granfondo Internazionale Nove Colli è stata rappresentata da Miguel Indurain. Il grande campione spagnolo, in qualità di Ambassador Enervit, ha preso parte alla storica e impegnativa granfondo romagnola che ogni anno raduna 10.000 appassionati a Cesenatico, la città culla di Marco Pantani.
Mentre il Porto Canale pullulava di bici e ciclisti, abbiamo colto l’occasione per scambiare due chiacchiere con il formidabile passista-scalatore navarro, oggi 59enne, che in carriera ha vinto cinque Tour de France consecutivi dal 1991 al 1995, come nessun altro mai, ma anche due Giri d’Italia in accoppiata con le edizioni 1992 e ’93 della Grande Boucle, il mondiale a cronometro del 1995 e nella stessa specialità l’oro olimpico di Atlanta 1996.
Come è andata la sua prima Nove Colli?
«Molto bene. Ero già stato da queste parti con il Giro d’Italia e altre corse ma questo evento, che ho scoperto essere il più antico nel suo genere, mi mancava. Ho visitato lo Spazio Pantani, il museo dedicato al Pirata e abbracciato i suoi genitori, ho ritrovato amici ed ex colleghi e tanti tifosi. In bici continuo ad andarci con regolarità. Ovviamente non forte come quando gareggiavo e solo quando c’è bel tempo, ma 2-3 uscite a settimana le mantengo e ogni anno partecipo a 6-8 granfondo. Con Enervit in passato ero stato alla Maratona delle Dolomiti e questa volta ho avuto l’occasione di pedalare sulle strade da cui partirà il Tour 2024. Davide Cassani (presidente dell’APT Emilia Romagna, ndr) mi ha illustrato le tappe del Grand Départ, sarà stupendo. Mi aspetto una battaglia avvincente tra Vingegaard, Pogacar, Evenepoel e tutti i big che si presenteranno al top della forma».
Il suo legame con l’Italia nasce da lontano.
«Sì, ho grandi ricordi legati al vostro Paese, nella mia epoca disputavamo tante corse qui e i miei sponsor erano praticamente tutti italiani. Pinarello, Campagnolo, Enervit, Sidi, Selle Italia... Tra i vostri connazionali ho avuto anche i miei più grandi rivali, a partire da Bugno e Chiappucci. Quanto è cambiato il ciclismo da quando correvamo noi... Ora è decisamente più globale e ci sono Nazionali che hanno possibilità diverse rispetto alle nostre. Sia in Spagna che in Italia il movimento è in difficoltà, ci sono pochi team e i nostri corridori sono costretti ad andare all’estero. Oltre a Movistar da noi ci sono poche aziende interessate a investire e in un movimento così mondiale senza budget non si può andare lontano. Prima si correva sostanzialmente solo in Francia, Italia, Spagna e Belgio, ora lo si fa ovunque».
Ha mai pensato di impegnarsi con una squadra?
«No. A me piace ancora tanto andare in bici ma di dirigere non sarei capace. Non ho la pazienza necessaria. In questi giorni in Italia ho ritrovato ex colleghi come Alberto Volpi e altri della mia epoca che sono bravissimi direttori sportivi. Lasciamo spazio a loro, io in ammiraglia non mi ci vedo».
Scambierebbe il “suo” ciclismo con quello di oggi?
«No perché oggi è tutto più veloce e pensato per la tv, mentre io sono sempre stato un atleta di fondo, che emergeva sui percorsi lunghi. Non ho mai digerito salite con pendenze al 25-27% come Mortirolo e Zoncolan, tuttora preferisco salite lunghe e meno arcigne come Sestriere e Gavia. Oggi non si trovano più lunghe cronometro come quelle in cui io riuscivo a fare la differenza. In tappe brevi ed esplosive uno come Gianni Bugno avrebbe vinto di più? Beh, sì (ammette sorridendo, ndr) ma ognuno vive il suo tempo. Ora è giusto godersi lo spettacolo che ci offrono i giovani campioni di adesso».
Il suo preferito?
«Mi piaceva molto Tom Dumoulin, ma ha smesso. Devo cercarne in gruppo un altro, grande e forte in cui immedesimarmi. In realtà ce ne sono diversi: Wout Van Aert, che va forte su tutti i terreni, l’attuale campione del mondo Mathieu Van Der Poel, per non parlare di Tadej Pogacar, che riesce a conciliare classiche e grandi giri. C’è l’imbarazzo della scelta e lo spettacolo è assicurato. Lo sport in generale è cambiato molto: le manifestazioni devono essere più corte e accattivanti, è anacronistico trasmettere 6-7 ore di diretta, lo show deve essere rapido. Da spettatore è bello, ma da corridore non avrebbe fatto per me».
Cosa pensa del nostro Filippo Ganna?
«Ha dimostrato di essere un pistard eccezionale. Ha un motore spaziale a crono, ma sta cambiando pelle. Può essere un’idea, però prima pensi a Parigi. L’oro olimpico è per sempre e se lo ottieni in Francia…».
Indurain e Pantani nel 2023 come sarebbero in corsa?
«Marco l’ho trovato nel finale di carriera, in salita era micidiale, ho capito che dovevo sbrigarmi a vincere il quinto Tour consecutivo (impresa non riuscita nemmeno al Cannibale Merckx, a Hinault o Anquetil; sarà superato nella storia della corsa francese solo qualche anno dopo dallo statunitense Lance Armstrong, rimosso successivamente dall’albo d’oro per le note questioni legate al doping, ndr). Da quando ci davamo battaglia il mondo è cambiato, il ciclismo di più. Correvamo con i panini nella maglia, ci portavamo dietro il pranzo come in una Gran Fondo. Oggi saremmo degli amatori. Collaboro con Enervit e vedo che i progressi sono enormi in ogni campo. Se penso a Marco e a quello che ha detto sua mamma… La sua fine è stata un’ingiustizia. Sarebbe stato bello correre la Nove Colli con lui…».
Gli ultimi a vincere Giro-Tour nello stesso anno sono stati Indurain 1993 e Pantani 1998. L’accoppiata non è più possibile?
«Certo che sì, ma è necessario prepararsi in modo diverso. Niente classiche, ma è una rinuncia ben ripagata. Chi centra la doppietta scrive la storia. Potrebbero riuscirci sia Vingegaard che Pogacar, certo il Giro dovrebbe essere meno duro. Anche Roglic potrebbe tentarci, scarto Evenepoel: corridore fantastico, ma non regge mentalmente tre settimane».
Chi l’ha vista pedalare in Romagna dice che va ancora forte.
«No, ora non penso alla velocità ma al godermi le esperienze. In inverno, con il freddo, per esempio non esco perché non mi piace. Quando il tempo a Olaz, nei dintorni di Pamplona, dove vivo, è piacevole pedalo con alcuni amici oppure anche da solo, ma sempre e solo su strada. Il ciclismo resta la mia passione più grande. Collaborando con realtà come Enervit e con un istituto bancario attivo in Spagna, prendo parte ad eventi e pubblicità, e con tre figli c’è sempre qualcosa da fare. Il maggiore che si chiama Miguel come me e ha anche corso, ha aperto quest’anno un negozio di bici a Maiorca; Jon vive a Madrid e ha a che fare con i numeri, lavora nel mondo dell’economia; Ana, la più piccola che vive ancora con me e mia moglie Marisa, si è laureata da poco in biochimica e sta cercando lavoro in questo settore. Non mi annoio e chissà quando arriveranno dei nipotini. Se praticassero ciclismo ne sarei felice. Io ho iniziato a 11 anni con la maglia del Club Ciclista Villavès. Ricordo il premio per la prima vittoria come fosse ieri: un panino e una Fanta, bastarono a farmi contento. Allo stesso tempo sarei un po’ preoccupato perché è uno sport rischioso. Fin dai primi allenamenti sui 26 chilometri tra Villava ed Elloriz, mia mamma me lo diceva sempre: “fai attenzione”».
Per fortuna non gli ha mai chiesto: “vai piano”.