Davide Bramblla: «Il sogno americano? Grazie a Trek e ad un grande gruppo è... diventato italiano»

di Pier Augusto Stagi

L’America l’ha respirata su­bito, fin da ragazzino. Il sogno americano che porta a realizzare i sogni, quella mentalità aperta e pronta alla conoscenza, quel mondo che all’epoca appariva lontanissimo, fatto di spazi e pochi confini sono ancora oggi parte del suo essere cittadino del mondo, senza una meta, ma con tante mete. Non una casa, ma tante case. Non un obiettivo, ma tanti obiettivi. Un mondo, quello americano, sempre più avanti e predisposto al nuo­vo e al futuribile.
Ecco, nel passato di Davide Brambilla, anni sessantuno, numero uno di Trek Italia, c’è tanto stelle e strisce e tantissimo futuro. Lo ha respirato fin da ra­gazzino, quando dire IBM (la In­ter­na­tional Business Machines Corporation) portava un profumo di avventura, perché significava avere a che fare con qualcosa di assolutamente innovativo e supertecnologico, tra il magico e il fantascientifico. Negli Anni Settanta IBM era una delle maggiori aziende statunitensi, la più antica del settore informatico. Ed è questa l’aria che il piccolo Davide respira, visto che papà e mam­ma, innamoratisi tra le mura della “Big Blue”, qui lavoravano. Mamma nel settore segreteria, papà in quello della lo­gistica. Oggi, come quegli amori che fanno lunghi giri e poi ritornano, quell’America respirata da bimbetto e che l’ha formato e informato è tornata al suo fianco. A tal punto che ha trovato l’America in Italia, ne ha creato un piccolo grande spazio, tramutando i sogni in ambizioni, sotto forma di biciclette.
Se la Trek Italia è nata il merito è sen­za dubbio suo, anche se lui a questa semplificazione rifugge, «perché da soli non si fa nulla, da soli non si costruisce, tutt’al più si demolisce quanto di buono è stato fatto».
Ma andiamo con ordine, un passo alla volta, una pedalata via l’altra, eccoci questo mese al cospetto di un nuovo “Capitano coraggioso”, un manager non convenzionale, che ha creato un lembo di America a Bergamo.
Da dove incominciamo?
«Da dove vuole lei, forse dall’inizio come in ogni buona storia che si rispetti».
Esatto. Da dove inizia la sua storia?
«Da Milano, zona piazzale Loreto, zo­na est della capitale morale del nostro Paese. Nasco il 1° gennaio 1962, frutto di un amore grande tra mamma Isabella Bozzi, d’origine mantovana, e papà Adriano Brambilla. Si incontrarono e si innamorarono tra le mura di una grandissima multinazionale che si chiamava e si chiama IBM. All’epoca un autentico colosso dell’informatica, dove mamma svolgeva mansioni di segreteria e papà invece era un manager che si occupa prevalentemente di logistica. Era un’azienda molto avanti, non solo nella produzione di software ma nella relazione con i dipendenti, con le loro famiglie. Ricordo che era un’azienda molto presente, che coinvolgeva e faceva sentire tutti parte integrante del progetto, si respirava l’orgoglio di far parte di quella realtà e anche noi ragazzi lo eravamo. Vivere negli Anni Settanta uno sti­le americano non era da tutti. Ricordo alla perfezione i natali che passavamo in azienda, quando a noi ragazzini ve­nivano fatti dei doni bellissimi: mia sorella Silvia ed io ne eravamo davvero rapiti. Sono cose che ci sono rimaste dentro e non abbiamo più dimenticato».
È sposato?
«Nella mia vita ho solo avuto convivenze. Il matrimonio è un contratto del quale non ho mai sentito la necessità, non è mai stato nelle mie corde, così come per mia sorella. Non abbiamo figli, siamo spiriti liberi e non contrattualizzati. Ho una compagna, Ema­nue­la, con la quale giro il mondo».
Come è stata la sua infanzia?
«Bella e serena. Avevo tantissimi so­gni, che io chiamo aspirazioni, tutte riconducibili e legate all’attività sportiva, che in parte mi sono portato dietro fino ad oggi. Il tennis era in cima ai miei pensieri. Ho cominciato a giocare a 10 anni all’Ambrosiano in zona Par­co Lambro. Dopo venticinque anni e grazie alla pandemia, l’ho riscoperto e oggi sono tornato a praticarlo con re­golarità grazie ad un notissimo procuratore del ciclismo, Johnny Carera, che mi ha segnalato vicino ai nostri uffici di Bergamo il club “Città dei Mille”, che adesso frequento con assoluta regolarità, in pausa pranzo o alla fine della giornata».
Ama anche guardarlo o è solo un tennista agonista?
«Amo moltissimo giocarlo, ma non di­sdegno assolutamente guardarlo in tv. Mi piace moltissimo, soprattutto quando giocava Roger Federer, il mio tennista preferito. Il più grande di sempre. Oggi? Come si fa a dire che Djokovic non sia grande?».
Cosa ama del tennis?
«L’uno contro uno. È l’esaltazione dell’agonismo».
Altri sport.
«Lo sci. Ho incominciato a sciare a 5 anni grazie ai miei genitori ed è uno sport che pratico ancora oggi in inverno. Non ho un posto, una meta prefissata, una località, una montagna o una casa, ma giro. Questa è la mia costante: non ho un luogo, ma il mio luogo è il mondo. Il mio spazio è lo spazio».
E il ciclismo?
«Ad un certo punto della mia vita l’ho scoperto, senza mai però appiccicarmi il numero sulla schiena. Amo la libertà del viaggio, la lentezza che ti consente di osservare e anche di pensare. Per un certo periodo ho anche praticato il triathlon, ma poi ho lasciato perdere tutto perché la corsa mi ha messo per così dire in ginocchio. Non amo correre, nuotare e andare in bicicletta invece sì. Ancora oggi sono due esercizi che pratico».
Che scuole ha fatto?
«Ho frequentato le scuole dei Sa­le­siani, sia le elementari che le medie, in via Copernico, vicino a casa. Poi ho scelto l’Istituto Tecnico Co­stanza, in via Vitruvio. Infine l’Univer­sità, facoltà di Fisica Industriale in via Ce­loria. Per­ché fisica? Perché sono sempre stato affascinato dalle materie scientifiche, dal laboratorio e dai materiali e lo scegliere Fisica mi dava questa opportunità».
Perché non ingegneria?
«Perché allora ero, ma lo sono tuttora, molto più attratto dall’astrofisica, la fantascienza in generale mi affascina ancora».
Militare?
«Fatto, diciotto mesi anziché dodici, ufficiale di complemento, alla Cec­chi­gno­la».
Già orientato al comando…
«Diciamo di sì. Non ho mai avuto l’obiettivo della carriera, ma pur di non buttare via un anno della mia vita ho pensato bene di fare un’esperienza di diciotto mesi che mi è servita molto. Ho fatto il militare di carriera come servizio di leva obbligatorio, difatti volevano farmi firmare. Pensi, oggi avrei potuto essere il Generale Bram­billa…».
Le sarebbe piaciuto?
«Perché no?».
Il suo primo lavoro?
«Io ero attratto dalla vendita. Incomin­ciai a lavorare per un’azienda che di­stribuiva fax e fotocopiatrici. Mi as­sunse la Decograf, ci restai un anno e mezzo. Dopo quella prima esperienza molto importante per me sotto l’aspetto della formazione, vengo intercettato e selezionato da un’organizzazione mol­to qualificata come la Rank Xerox, azienda multinazionale. E li mi occupo di commerciale: incomincio come venditore, poi entro nel marketing, infine Product-Manager».
Le aziende americane sono nel suo destino…
«Direi di si, anche perché dopo la Xe­rox, finisco in DHL».
Come arriva nel mondo del ciclismo.
«Arrivo nel 1999, tramite un “head hunter”, un cacciatore di teste. E l’azienda è la Bianchi, per la quale occupo inizialmente il ruolo di direttore commerciale e poi, dopo quattro anni, la famiglia Grimaldi mi nomina amministratore delegato, ruolo che ricopro per altri cinque anni».
Con la Bianchi esplode la passione per la bicicletta?
«Esattamente. Già facevo qualcosa, mi muovevo in bicicletta, ma in quella realtà respiro la storia di un marchio iconico. Conosco in modo particolare un galantuomo come Felice Gimondi, un valore aggiunto per un’azienda che era sinonimo di bicicletta nel mondo del ciclismo, in particolare in Italia e in Europa».
Di cosa vai più fiero?
«Abbiamo fatto tantissime cose belle, ma devo essere sincero, con Stefano Viganò, allora responsabile marketing del marchio di Treviglio (oggi alla guida di Garmin Italia, ndr) decidiamo di realizzare un team attorno alla figura di Jan Ullrich e andiamo al Tour. Quel­la fu un’operazione di memoria, ma an­che di grande attualità, di assoluta corrispondenza con il momento. Fu un’iniziativa che ebbe una grandissima ri­sonanza nel mondo e ne decretò il successo: la conservo come una delle esperienze più stimolanti vissute nella mia lunga carriera manageriale, sicuramente una delle più suggestive nel mondo delle due ruote».
Poi ecco la Trek, nel 2009.
«Di fatto mi chiamano per una vera e propria start-up. Fino a quel momento il marchio Trek era distribuito da Co­mar, poi gli americani decidono di com­prare tutto e creare la sede italiana. Ed è in quel momento che vengo intercettato: il mio compito è quello di dare vita ad una filiale italiana. Fino a quel momento Comar fatturava 7 milioni di euro oggi, dopo quattordici anni di grande lavoro, siamo ad oltre 60».
Che lavoro c’è stato?
«Tanto e molto stimolante. Per darle un’idea, Trek dopo Napoli non era as­so­lutamente conosciuta. Come le ho detto è stata una start-up in piena regola, ma con alle spalle un’organizzazione e una potenza di fuoco pazzesca. Sia­mo partiti da zero, ma non eravamo a zero».
Nel 2009 in quanti eravate?
«Otto persone, oggi siamo in 70».
Cosa significa avere alle spalle un’azienda come Trek?
«È una fortuna e un’opportunità, ma anche un grande responsabilità. Loro ti danno carta bianca, ma poi sta a te guidare una macchina performante nel modo migliore».
Di cosa va più orgoglioso?
«Prima le ho detto che il marchio Trek non era presente al centro e sud Italia e l’aver creato tutta una rete commerciale di altissimo livello per me è chiaramente motivo di orgoglio. Sono però orgoglioso anche di tutte le sponsorizzazioni che siamo riusciti a fare in questi anni, sponsorizzazioni anche molto local, che hanno contribuito alla crescita sociale dei vari territori toccati. Se me lo consente, poi, non posso che essere felice della squadra creata, dello spirito aziendale che si è creato negli anni tra di noi. Ho ragazze e ragazzi fantastici, competenti e appassionati, disponibili e propositivi. I successi di una realtà non sono mai merito di uno solo, ma è la risultante di un gruppo, coeso e determinato. Il merito è mio, il merito è anche loro».
Un pensiero molto americano…
«È quello che ho sempre respirato e che ho fatto mio. È un modo di ragionare per me naturale. Ho sempre pensato che le cose si devono sentire, non vanno pensate. Se fai una cosa pensando, difficilmente sei convincente, ma sei fai una cosa perché è connaturata nel tuo modo di essere, difficilmente non otterrai i risultati».
Con questo spirito lei ha trasformato un distributore in azienda.
«Con questo spirito abbiamo lavorato in tanti, coniugando senso di appartenenza e senso di responsabilità».
Lei è un fisico e ama l’astrofisica, le piace scrutare le stelle?
«Mi affascina l’idea che non siamo soli in questo mondo e che tutto quello che facciamo ci condurrà in un universo più ampio. Mi piace la visione di Elon Musk che sta lavorando per portare i terrestri su altri pianeti. In questo contesto è curioso pensare che la bicicletta resterà sempre sé stessa, con due ruote e tantissima innovazione tecnologica. Il prodotto sarà sempre quello, ma con l’applicazione delle tecnologie che noi stiamo sviluppando oggi. È come se ci fosse un contrasto tra una struttura che resta cristallizzata e la tecnologia che mette in movimento un prodotto che solo all’apparenza è fermo, ma in realtà è evoluto in maniera progressiva. Oggi il 50% del prodotto è ancora non elettrico, ma tra cinque/dieci anni sarà quasi tutto elettrico».
Ipotizza un Giro d’Italia o un Tour sempre muscolare?
«Bella domanda. Devo dire che rispetto a quello che vedo oggi, se solo tre anni fa chiedevi ad un appassionato se possedeva una bici da corsa o elettrica, ti avrebbe risposto probabilmente in malo modo, perché la bicicletta da cor­sa è solo muscolare. Oggi questo concetto è già stato superato, fa parte or­mai della storia. E domani sarà una sto­ria ancora diversa».
Ha un libro del cuore?
«Non uno, ma posso dirle che leggo libri di storia. L’antico Egitto mi affascina molto. Se posso, leggo libri di sto­ria. Se conosci bene la storia puoi capire e anticipare quello che verrà».
Il film preferito?
«2001 Odissea nello spazio, un capolavoro sempre verde. HAL 9000, il su­percomputer di bordo della nave spaziale Discovery è un must. Una pietra miliare».
Il piatto preferito.
«Non amo le cose troppo condite e so­fisticate. Adoro il minestrone e la cotoletta: vede, sono molto milanese. In estate adoro il minestrone freddo».
Mare o montagna?
«Entrambe».
Il posto del cuore?
«Non ho un posto o una casa dove an­dare, io amo andare in giro. Il posto del cuore è il mondo. Lo spazio. Adoro immergermi in nuove realtà».
Un colore.
«Il blu».
Un fiore.
«Il girasole. Il fatto che abbia questo movimento continuo durante il giorno mi affascina».
Musica.
«La disco Anni Ottanta».
Ascolta la musica di oggi?
«Poco, anche se mi affascina tanto Ma­dame, mi trasmette sensazioni molto belle. È suggestiva, con melodie ampie e lontane».
Attore.
«Michael Douglas».
Attrice.
«Cameron Diaz e Charlize Theron».
Ha una squadra del cuore?
«Se si riferisce ad una squadra calcistica no. Non seguo assolutamente il calcio. Niente di niente».
La F1?
«Poco. Preferisco la pallavolo e il ciclismo. Mi piace guardare una bella gara. Le classiche del Nord, il Giro, il Tour: le grandi corse. Oggi ci sono tanti ra­gazzi bravissimi, anche se chiaramente tifo Lidl Trek. Quest’anno siamo andati molto bene, ma per il 2024 l’amico Luca Guercilena ha allestito un grande roster e probabilmente sulla carta po­tremo fare anche meglio».
La corsa dei sogni?
«Due: la Roubaix e il Tour de France».
Ha un sogno nel cassetto?
«Avevo un sogno, ma oggi è tardi: mi sarebbe piaciuto un sacco diventare un campione di tennis. Lo trovo uno sport dinamico, competitivo e di testa: è bellissimo. Anche il golf mi piace un sac­co».
Ci gioca spesso?
«Due volte al mese, perché è un’attività che porta via troppo tempo: ogni 18 bu­che sono almeno quattro ore. Non è poco».
Cosa apprezza degli americani?
«Sono persone dirette, che fanno pochi giri di parole: tanto pragmatismo e un’ottima gestione dei numeri».
C’è una cosa che la manda in bestia?
«La mancanza di sintesi. Ha presente le supercazzole? Bene, quelle cose alla mia età non le sopporto più».

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