di Pier Augusto Stagi
Ad un certo punto si ritrovarono in testa alla corsa loro quattro, il meglio del meglio in circolazione. L’extraterrestre che anche in quella stagione - il 1973 - seppe vincere la bellezza di 30 corse, con Laigueglia e Het Volk, Gand-Wevelgem e Amstel, Roubaix e Liegi, Vuelta e Giro: così, tanto per gradire. Oltre a Eddy Merckx, il numero uno al mondo, il “cannibale” del ciclismo mondiale, in quella fuga a quattro c’era anche lo spagnolo fresco vincitore del Tour de France Luis Ocaña, che in quell’anno aveva vinto anche la Settimana Catalana, i Paesi Baschi e il Giro del Delfinato. Poi c’era il bimbo belga, Freddy Maertens, sette vittorie, tra le quali la Quattro Giorni di Dunkerque e per finire il nostro Felice Gimondi, “Felix de Mondi” o “Nuvola Rossa” come lo aveva ribattezzato Gioânn Brera fu Carlo, che ancora una volta era arrivato secondo al Giro alle spalle di Merckx.
In quel mondiale del 2 settembre del 1973, sull’esigente circuito del Montjuïc a Barcellona, si ritrovarono là davanti in quattro: Eddy Merckx, Luis Ocaña, Freddy Maertens e Felice Gimondi. Su un percorso di 248,6 km che è tutto un mangia e bevi e non concede tregua, la collina catalana lancia un poker d’assi. Il favorito? È sempre lui: Eddy Merckx, che domande! Il Cannibale è in una delle sue ultime annate di grazia e può contare su una squadra di assoluto livello forte anche di Roger De Vlaeminck. Lo sfidante? In verità sono due: il nostro Felice e lo spagnolo triste Ocaña.
«Quando mi ritrovai lì con loro tre, dopo che si era staccato Giovanni (Battaglin, ndr), mi dissi: devo almeno salvare l’onore. No, non pensavo alla vittoria, ma a finire nel migliore dei modi. Per questo mi piazzai alla ruota di Eddy», ebbe modo di raccontarmi in più di un’occasione Felice, che sapeva bene che non c’è nulla di predefinito, men che meno le corse, che vanno sempre disputate, perché qualcosa può pur sempre accadere.
Difatti il belga ad un certo punto fu colpito da un sasso sollevato dal passaggio della corsa. Il ginocchio di Merckx viene colpito, ma Eddy reagisce a modo suo, come spesso si è trovato a fare. Via a tutta per andare ad annullare la fuga e poi via sempre a tutta all’undicesimo dei diciassette giri previsti. Il ritmo è pazzesco, il risultato della selezione fatta altrettanto. Resistono solamente gli spagnoli Domingo Perurena e Luis Ocaña, l’olandese Joop Zoetemelk con gli azzurri Gimondi e Giovanni Battaglin e l’altro belga, il velocissimo Freddy Maertens. Merckx non ci sta, è un fiume in piena, sente di dover mettere la parola fine prima del traguardo, ma alla sua ruota restano quei tre.
Gimondi sa che non sarà facile, ma è consapevole di come si deve fare in certe occasioni. È vero che dal “cannibale” ha perso una infinità di volte, ma in più di un’occasione ha saputo sovvertire il pronostico. La sua è una vera e propria marcatura a uomo. Non c’è altro da fare. Stringere i laccetti dei pedali e i denti. Se Eddy va, deve andare anche lui, fin che ne ha, fin che può.
Sono in quattro e sotto la canicola catalana si gioca una vera e propria partita a poker. Nonostante ci siano un Re e un alfiere, oltre a due cavalli di razza, non è una partita a scacchi, quella sul circuito del Montjuïc è una sfida a carte, fatta di occhiate e sguardi. Felice scorge la fatica negli occhi e nella pedalata del Re belga. Merckx capisce che qualcosa non gira per il verso giusto, che c’è qualcosa che non va e come un giocatore navigato cerca di bluffare facendo tirare la volata al giovane connazionale, Freddy Maertens, uno che ancora il mondo del pedale conosce poco, ma da quel giorno nessuno più perderà di vista.
Freddy parte con una volata molto lunga su quel rettilineo interminabile che tira un po’ all’insù, Merckx non riesce a seguirlo rapidamente. Felice capisce al volo la situazione. È il momento e il momento va colto, preso e accompagnato, soprattutto non mollato per nessuna ragione al mondo. Felice scavalca Ocaña e il rivale di sempre, affianca Maertens e lo salta proprio sul traguardo con un prodigioso colpo di reni. L’Italia esulta: Felice è sul tetto del mondo, come Alfredo Binda e Learco Guerra, Fausto Coppi ed Ercole Baldini. Come Vittorio Adorni prima di lui.
Quella vittoria è per Felice Gimondi il giusto riconoscimento per una carriera esemplare che mancava solo di una certificazione mondiale, universale e unanimemente riconosciuta. Il giusto tributo ad un corridore che ha vinto meno del suo rivale, ma non per questo si è mai considerato in partenza vinto. Gimondi è stato l’essenza dello sport. Se Merckx era considerato, a ragione, il simbolo della vittoria, Gimondi è stato per tutto quel irripetibile periodo storico, l’archetipo di chi non si è mai dato per vinto, andando a costituire per anni un binomio perfetto e insostituibile fatto di lealtà e vigore sportivo. Merckx-Gimondi, le facce della stessa medaglia: d’oro zecchino, proprio come nelle favole.
«Mi sono reso conto che nella vita non è indispensabile essere il numero uno per essere utile alla società, puoi essere il numero due, il numero cinque o il numero dieci, purché tu faccia le cose in modo giusto e corretto e ce la metta tutta».
Felice Gimondi