Stefano Viganò: «Lavorare in Garmin è una sfida continua. La prossima? La sostenibilità»

di Pier Augusto Stagi

È ossessionato dalla conoscenza, dal desiderio di apprendere e sapere, di colmare lacune e distanze percorrendone mol­te e in continuazione. È onnivoro e goloso di vita, se può ne fa incetta a piene mani. Diciamo che a Stefano Viganò, da dodici anni amministratore delegato di Garmin Italia, non serviva l’esortazione di Steve Jobs ad essere né folle né tantomeno affamato, perché è dotato di creatività di suo e anche a livello di curiosità è affamato di tutto. Il suo grosso cruccio è leggere sempre un libro in meno di quanti vorrebbe. Vedere un luogo nuovo a di­sca­pito di un altro. Non è quello del “ma anche”, ma è anche pronto ad esserlo, perché lui è uomo che adora costruire ponti e aprire porte, «amo mettere in discussione le cose, mettendo in discussione soprattutto me stesso», ci dice. Conoscenza, conoscenza e conoscenza: questo so­stantivo potrebbe essere il suo motto, il suo credo, anche se poi a loro volta le stesse parole sono limitanti, creano precisi confini e Stefano il confine lo sposterebbe sempre un po’ più in là. Potrebbe apparire ai più co­me un po­tenziale e cronico insoddisfatto, ma Stefano Viganò, 59 anni bergamasco di Boccaleone, quartiere che sorge nella parte orientale della città dei Colleoni, a due passi da Seriate e Orio al Serio, adora coinvolgere tutti nei sui progetti senza lasciarsi indietro nessuno e questa cosa lo rende soddisfatto come po­chi. È tutt’al più ossessionato dal bello e dal buono, non solo sotto l’aspetto culinario, di cui sua moglie Stefania Buscaglia si occupa - da giornalista e blogger affermata e se­guitissima (mangiaredadio.it) -, ma del buono inteso co­me azioni fatte per bene e per il bene: di tutti. Non so se sia un idealista, di sicuro il “Capitano coraggioso” che questo mese abbiamo deciso di incontrare e vi presentiamo, ha degli ideali e delle idee: chiaramente non chiuse, non preconfezionate, ma aperte al mondo.
«Nasco in provincia di Bergamo, a Seriate, il 21 febbraio del 1964. Terzo di tre figli (Franco e Maria Grazia, ndr). Mio fratello dopo la banca, oggi lavora in ambito finanziario e mia so­rella è casalinga. Mamma Teresina ha sempre fatto anche lei la casalinga e oggi ha 90 anni. Papà Giacomo ci ha lasciato troppo presto, tanti anni fa a soli 60 anni. Faceva l’infermiere professionale al manicomio di Bergamo. So­no sempre stato una persona curiosa, quindi fin da subito cercavo di scoprire il più possibile del mondo e questo ogni tanto mi portava a ficcarmi in qualche situazione non proprio bellissima. Spesso qualche casino lo facevo. Cosa amavo fare? Smontavo e ri­mon­tavo biciclette, di continuo. Papà Gia­como aveva corso in bici e quindi fu lui a trasmettermi questa passione che non ho mai però tradotto in agonismo. Diciamo che essendo un motoperpetuo alla ricerca costante del nuovo, la mia Saltafoss cambiava colore ad ogni piè sospinto e questa cosa è andata avanti per anni, anche con il primo Ciao e la mia prima Vespa. Mi dilettavo a montare e modificare: sempre. Andando all’oratorio di Bocca­leo­ne, mi cimentavo in tante cose, in tanti sport. Ho provato di tutto e di più, alla fine ho scelto l’atletica leggera: cross d’inverno e poi i 1.500 e 2.000 metri dalla primavera all’estate. Come sempre ho scel­to qualcosa che mi si calzasse ad­dos­so. Non delle prove velocissime e nemmeno lunghissime, una via di mezzo e alla fine ero anche bravino, ma non durò molto: ad un certo punto mi stufai».
Elementari?
«Sempre a Boccaleone alla “Domenico Savio”».
E le medie?
«Lì vicino, alla “Filippo Corridoni”».
E poi?
«Le superiori di elettronica e poi Scien­ze Politiche ad Urbino, due anni, quindi ho scelto il lavoro».
Quando ha cominciato a lavorare?
«Nell’84 assolvo il servizio di leva: a Vi­piteno negli alpini. Entro nel mondo del lavoro a gennaio 1986. Mi iscrivo ad un training di formazione organizzato dall’Unione Industriali di Bergamo. Quindi, borsa di studio, sei mesi di au­la e tre mesi di stage in un’azienda: io al­la Robur di Zingonia, azienda specializzata nella generazione di aria calda e sistemi di riscaldamento civili e industriali. Alla fine, dopo lo stage, mi assumono».
A questo punto cosa succede?
«Mi iscrivo all’università, come le ho detto, e in azienda mi propongono di fa­re il venditore. Mi affidano la zona di Milano Sud (porta Romana e Loren­teg­gio) e poi giù verso Casalpuster­len­go, Lodi, Codogno e via elencando. Co­sì da dipendente mi trovo a vendere generatori di aria calda per uso civile e industriale porta a porta. Dopo due an­ni divento area manager e mi ritrovo a gestire una decina di agenti, tra Emi­lia Romagna e Veneto fino giù a Cam­po­basso: ecco perché mi ero iscritto alla Università ad Urbino: mi era più comodo. Resto alla Robur per cinque anni e sono felice di esserci stato, perché ho avuto a che fare con un imprenditore illuminato, che sapeva dare gran­di mo­tivazioni e aveva un’attenzione particolare per i propri dipendenti».
Come si chiamava?
«Benito Guerra e sua moglie Luisella: persone eccezionali delle quali conservo ancora oggi un ricordo bellissimo. La fortuna è stata proprio incontrare sulla propria strada persone così».
Dal mondo dell’idraulica a quello della cosmesi: come avviene il passaggio?
«Essendo un tipo curioso e inquieto, mi do da fare e sulla mia strada trovo la GTS Group SpA, che aveva rivoluzionato il mondo dell’estetica professionale con i marchi Dibi e Be­cos. Entro per un paio di anni come assistente del di­rettore commerciale per la divisione apparecchiature elettroniche: ecco che il mio diploma torna utile. Pochi sanno che anche negli istituti di bellezza ci sono apparecchiature elettroniche per trattamenti professionali per il viso e per il corpo. Successi­va­mente divento sales manager della linea di cosmetici Becos gestendo una trentina di rappresentanti in tutta Italia e quattro area manager, garantendo un fatturato piuttosto importante. In questa realtà ci resto sei anni».
Corre l’anno 1998, un anno ciclisticamente parlando parecchio importante, ma è importante anche per lei. Il futuro più che rosa è celeste…
«Direi celeste Bianchi. In quegli anni il lavoro si trova sul “Corriere della Sera”. Lo compravi al venerdì e lì trovavi die­ci pagine piene di annunci: per chi cercava lavoro era un appuntamento im­prescindibile. Apro il “Corriere” e leg­go che Bianchi cerca un sales manager per il suo stabilimento di Treviglio. Non credo ai miei occhi. Io bergamasco cresciuto con il mito della Bianchi e Gimondi, grazie a papà che considerava sia il marchio così come Felicione il non plus ultra, io che avevo quella passionaccia di montare e smontare le biciclette, ho la possibilità di an­dare a finire in quella che non è per me un’azienda, ma un totem. E poi c’era il rito…».
Quale?
«Il rito del Mondiale. La tradizione di famiglia era andare ad ogni fine agosto dallo zio prete, parroco di Ponteranica - don Gianni Lamera - per vedere tutti assieme il mondiale. Corre l’anno 1973: la sfida iridata si tiene a Barcellona, sul circuito del Montjuïc. Quel giorno a vincere è il dio della bicicletta, il dio del ciclismo: Felice Gimondi. Il mio cam­pione. Quindi, tornando al Cor­riere, leggo l’annuncio e non esito a scrivere. La fortuna vuole che in Bian­chi cercano qualcuno che venga da fuo­ri, che non appartenga al mondo della bicicletta. Io arrivo a Treviglio nel di­cembre del 1998, proprio per la festa a Marco Pantani fatta negli stabilimenti per la leggendaria accoppiata Giro-Tour. Mi sembrava di essere finito al luna park. Per me la cosa importante non era avere un posto di lavoro buono e ben retribuito, ma spendersi con tutte le proprie energie perché quel ti­po di lavoro appassionava come pochi. E io l’avevo trovato».
Entra con quale ruolo?
«Come sales manager della divisione accessori, quindi conoscitore di tutti gli aspetti tecnici della bicicletta e poi di­rettore marketing. Successivamente en­tro nel mondo delle sponsorizzazioni delle squadre e delle corse».
E si trova al fianco del dio del ciclismo…
«Esattamente, Felice Gimondi, che mi prende sotto la sua ala e comincia a farmi conoscere il mondo delle corse e tutte le sue dinamiche. Mi porta al Tour e al Giro, mi fa conoscere tutti e mi spiega tutto. Insieme diamo vita alla squadra di mountain bike, con Ab­sa­lon, Hermida, il povero Dario Acqua­roli, una squadra vincente, e nel contempo entro nel mondo della strada cominciando a gestire il dopo Merca­tone Uno. E li facciamo la Alessio Bian­chi e vinciamo la Roubaix con Ma­gnus Backstedt, la Liquigas-Bianchi, facciamo la Bianchi con Jan Ullrich».
Che forse è la cosa più bella.
«La considero anch’io così. Mi chiama a marzo inoltrato Rudy Pevenage, l’allora manager di Jan, e mi dice che il Team Coast è in crisi, che ha bisogno di aiuto per poter andare al Tour. Io pren­do la palla al balzo e propongo all’allora AD della Bianchi, l’ingegner Romano Antichi, di andare al Tour con Ullrich e la maglia celeste Bianchi. Ar­riverà secondo, alle spalle di Lance Armstrong».
Con un gesto di fair play incredibile, nella tappa di Luz Ardiden.
«Tour 2003, tappa numero 15, Arm­strong cade, Jan potrebbe attaccarlo, ti­rare dritto, invece decide di aspettarlo. In ogni caso è stata un’esperienza di rara bellezza che mi porto ancora oggi nel cuore. A Bianchi diede una esposizione mediatica incredibile. Diciamo che in ogni caso è stato davvero un successo».
Grazie a Bianchi, comincia ad andare an­che in bicicletta.
«È così, prima ero uno sportivo da di­vano, una volta entrato in Bianchi co­mincio a pedalare, cosa che non ho più smesso di fare».
In Bianchi resta fino al…
«2007. Prima avevo fatto alcune collaborazioni di cui vado ancora adesso fiero: una con Armani e con Ducati. Visto che piloti del calibro di Casey Stoner, Troy Bayliss o Loris Capirossi erano tutti appassionati di ciclismo e per tenersi in forma si allenavano in bicicletta quotidianamente, penso a stringere un rapporto di collaborazione con la scuderia di Borgo Pa­nigale. Co­sì, prendiamo la licenza del brand Du­cati e facciamo una serie di biciclette che vendiamo nei nostri concessionari in giro per il mondo. In oc­casione dell’inaugurazione di questo am­bizioso progetto nei nostri stabilimenti di Tre­viglio, tra gli invitati c’è anche Sandro Ligossi, il proprietario dell’azienda Synergy che distribuisce in Italia il marchio Garmin. Era probabilmente lì in quanto amico di qualche dirigente Ducati. Questo accade nel 2006».
Dopo di che, nel marzo del 2007…
«Una telefonata. Un amico, che conosceva sia Sandro Ligossi che sua mo­glie Bruna Morelato - i signori Synergy -, raccoglie il loro invito a cercare un marketing manager. C’è da mettere in piedi una nuova divisione, quella del “corsa”. Difatti la casa madre Garmin ha deciso di entrare nel mondo del ciclo e questo amico fa il mio nome a Sandro - che si ricordava di me dai tem­pi della presentazione Ducati - e a Bru­na. Entro così in Garmin il 2 maggio del 2007 come Sales manager della divisione fitness, che seguiva l’introduzione di prodotti da ciclismo e running nel mondo dello sport. Poi la Garmin America a fine di quell’anno decide di rilevare la Synergy e nasce la Garmin Italia. Io ho continuato a fare il sales e marketing manager per la divisione sport. Per un breve periodo anche mar­keting manager di tutte le divisioni, ma dal dicembre 2011, vengo nominato am­ministratore delegato di Garmin Italia».
Dodici anni volati via…
«Con Garmin sì, perché se sei appassionato di quel prodotto e di quell’azienda non ti annoi di certo e il tempo ti vola via. Cosa vuole che le dica: il lavoro è parte della mia vita, e io vivo tutto con assoluta passione».
Sposato?
«Sì, da tredici anni con Stefania. Ab­bia­mo anche un figlio, Lucio, che ha tredici anni».
Qual è la cosa che più la inorgoglisce?
«Essere partito da lontano e aver percorso tanta, tantissima strada. Esserci riuscito da solo è motivo di grande orgoglio. Soprattutto quando vieni da una famiglia umile, che faticava ad arrivare a fine mese. Nei confronti di papà e mamma era quasi un dovere morale. Sia ben chiaro, non ho mai pensato un solo momento a far carriera, ma solo e soltanto a far bene quello che mi trovavo a fare, con passione e curiosità: il resto è venuto di conseguenza».
C’è ancora un obiettivo che vorrebbe raggiungere?
«Professionalmente parlando no, ma oggi mi piacerebbe condividere la mia strada con le persone che lavorano con me, per lasciare loro qualche esperienza che possa essere d’aiuto. Oggi lavoro per la mia azienda e per quelle 73 persone che sono al mio fianco, alle quali sono grato».
Tanti prodotti, molto innovativi, ce n’è uno in particolare che l’ha segnata?
«Il primo è un progetto del 2014 che abbiamo sviluppato in Italia e oggi è internazionale. E mi riferisco all’introduzione del marchio Garmin nel mon­do delle orologerie. Di questa cosa va­do particolarmente orgoglioso. Un prodotto no, anche se grazie alla collaborazione con Simone Moro siamo riusciti a portare la gamma degli strumenti in­dossabili per l’escursionismo e l’alpinismo ad un livello di assoluta eccellenza che oggi qualsiasi competitor ci invidia».
Come vede il mercato del futuro?
«Quale mercato, noi ne seguiamo tan­ti: dalla nautica all’automotive…».
Il mondo dello sport.
«Deve trovare una nuova identità. Con l’avvento di internet e della globalizzazione, il mondo sta richiedendo aziende sempre più strutturate e organizzate e di conseguenza il ruolo dei piccoli negozianti è destinato ad essere rivisto, ricollocato da qui ai prossimi cinque anni. Devono darsi una nuova fisionomia».
A livello tecnico cosa chiede il mercato?
«Difficile dirlo, visto che siamo già un’eccellenza e se poi me lo consente, non possiamo svelare le nostre strategie. Diciamo che stiamo lavorando sull’aspetto della sostenibilità. Vedo strumenti che faranno sempre meno utilizzo di corrente elettrica e mi fermo qui».
Il colore preferito?
«Non ne ho mai avuto uno. Cambia a seconda dei periodi: dal viola all’arancione, con in mezzo periodi di verde e giallo».
Un po’ come Picasso: il periodo blu, il periodo rosa…
«Io non sono arrivato al cubismo».
Il mito sportivo?
«Steve Prefontaine, mezzofondista statunitense degli anni Settanta. E poi Fe­lice Gimondi».
Canzone del cuore?
«Ne ho più di una, come faccio a dirgliene una, io spazio e mi perdo. Però faccio uno sforzo e le dico: Woodstock 1968, l’interpretazione di Joe Cocker: “With A Little Help From My Friends”. Poi spazio in lungo e in largo. Ma le dico anche Pink Floyd, che hanno fatto da spartiacque tra i Beatles e la modernità».
Film.
«Uguale come sopra, ne ho tanti. Però un film che mi ha sempre rappresentato è “La mia africa”. Ispirato all’omonimo romanzo di Karen Blixen. Pensi che sono stato anche alla casa museo della Blixen a Copenaghen».
Attore.
«Robert Redford e Russell Crowe».
Attrice.
«Mi è sempre piaciuta Jennifer Con­nelly».
Una cosa che non sopporta.
«Non sapere come si fa una cosa. Mi chiedo troppo spesso il perché e come funziona. Spesso sono costretto a far finta di niente, ma se posso devo indagare».
C’è una cosa che la commuove?
«Il successo di una persona che si è fatta da solo».
C’è un personaggio della storia che le piace?
«L’Imperatore Adriano: fu uno dei “buoni imperatori”».
Vive girato all’indietro?
«Assolutamente no. Io non sono legato al passato, ma non lo butto via per vi­vere l’oggi. Faccio fatica a non mischiare il passato al presente perché non sono legato al passato, non vivo troppo intensamente il presente, ma vivo: tutto qui».
Mare o montagna?
«Tutti e due».
Posto del cuore?
«L’Africa, il Kenya. Uno dei tratti che penso mi distingua è la mancanza assoluta di convinzione che una cosa per me è quella vale più di tutto. Faccio fatica. Io ho venti posti del cuore. Le racconto una cosa: ho fatto un viaggio di notte in pullman in Bolivia, otto ore verso Potosì ad oltre 4000 metri di altezza, dove le stelle che vediamo non sono quelle che siamo abituati a vedere. Ne sono rimasto abbagliato e in quel viaggio ho vissuto delle emozioni talmente forti che non so se quello sia per me un luogo del cuore, ma in quel posto, in quel momento, sotto quel cielo di stelle così luminescente, ho vissuto qualcosa di unico».
Perché il Kenya?
«Perché ho costruito e gestito per dieci anni un asilo per bambini orfani e per tre volte all’anno andavo avanti e indietro per seguire in prima persona questa scuola e ho vissuto l’essenza del Ke­nya: quell’esperienza mi è rimasta dentro».
È più importante fare di tutto o solo qualcosa benissimo?
«Se riesci a fare tutto benissimo è me­glio, io però amo conoscere tutto, ap­prendere il più possibile, avere un ba­gaglio il più possibile completo e pe­sante».
Si sente un animo ribelle?
«Non nel senso più stretto ed estremo del termine, ma è vero che amo mettere in discussione le cose».
Anticonformista?
«Oggi è la forma più conformistica che ci sia: è un termine da cui rifuggo».
Passione?
«Oggi la bicicletta, ma non garantisco che lo sia per sempre. E poi i fiori…».
I fiori?
«È bello prendersi cura di qualcosa: è il modo migliore di prendersi cura di sé stessi. Mentre lo fai, stai bene tu. Il fio­re preferito? L’Iris Barbati. Nella casa di Scanzorosciate, dove vivo con Stefa­nia e Lucio, sui Colle dei Pasta, ho 400 metri di giardino e li curo piante e me stesso».
Animali?
«Tre gatti: Cagliostro, Iggy e Priscilla. Fanno famiglia. Sono parte integrante della nostra famiglia».
Come si vede tra dieci anni?
«In bicicletta sulla strada da Canter­bu­ry a Gerusalemme».
La via Francigena.
«Si. Canterbury Roma, Roma Gerusa­lem­me. Dentro di me c’è il viaggio. Cer­co di mantenermi in forma per fare queste cose qui».
Ci sarà spazio per la bicicletta, ci sarà tempo per un viaggio.
«…E le stelle».

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