Vergallito: «Il bandito studia per diventare campione»

di Nicolò Vallone

«Non critico né lui né Zwift Academy: me la prendo soltanto con chi definisce professionisti dei corridori che ancora non lo so­no; con chi dice che lui con Zwift ha ottenuto un contratto da professionista, quando lui ad oggi è un dilettante esattamente come un Matteo Scalco che in quello stesso 4 giugno vinceva la Coppa della Pace in Romagna ricevendo molto meno clamore».
Prima di scrivere qualsiasi cosa su Lu­ca Vergallito, riteniamo doveroso delimitare correttamente una volta per tut­te il pensiero di Riccardo Magrini, considerato il grande accusatore del Ban­di­to. Quella del Magro non è una polemica da boomer contro un nuovo mo­dello per emergere nel ciclismo internazionale, né tantomeno un attacco personale a un ragazzo che si sta ritagliando un posticino nel circuito con determinazione e competenza. È semmai un richiamo generale alla precisione: le parole (e le definizioni) sono importanti, e mistificare la realtà non è cosa buona e giusta. La categoria Con­tinental, benché abbia diritto a competere coi più grandi in parecchie corse, non è professionismo, dopodiché ci auguriamo di cuore che per l’atleta meneghino e altri suoi colleghi italiani possa essere l’anticamera per i massimi livelli. Fatta tale premessa, e chiarito finalmente un equivoco che ha portato ad aspra diatriba il popolare commentatore di Eurosport e i fan di Ver­gal­li­to, vi proponiamo l’intervista che ab­bia­mo realizzato col classe 1997 della Alpecin Development dopo che ha vin­to il Giro dell’Alta Austria. Nella puntata 169 del nostro podcast BlaBlaBike l’avete potuta ascoltare IN PARTE. Ecco quella completa.
Come ti sei sentito dopo il primo successo della tua carriera “adulta”?
«Molto bene! Talmente bene che, sulla scia del morale altissimo, l’indomani non sentivo minimamente la fatica».
Ci racconti questo Giro dell’Alta Austria, culminato con l’ascesa decisiva di Hin­ter­stoder Höss dove sei andato via a Cabedo, Messner e gli altri?
«Pensa che non dovevo nemmeno partecipare inizialmente: ho sostituito Da­vid Van der Poel, il fratello di Mathieu, che si è ammalato. Ho dovuto fare i bagagli in fretta e furia dopo una sola notte trascorsa a casa post-Norvegia. Il prologo di questo Giro era la prova meno adatta a me, 600 metri su pavé. La prima e la seconda tappa le ho di­sputate in appoggio al nostro leader designato Timo Kielich, che le ha vinte entrambe indossando la maglia gialla. L’ultima frazione infine l’avevo già messa nel mirino, sapevo che quella scalata è molto adatta alle mie capacità. Certo, sapevo anche di aver speso pa­recchie energie nei due giorni precedenti: credevo alla vittoria, ma ero consapevole delle incognite legate alle fatiche di Norvegia e Alta Austria stessa. Nel corso della tappa ho capito che il recupero era stato buono, le gambe c’erano e ho attaccato».
Hai menzionato il Giro di Norvegia di fi­ne maggio: lì avevi già dato segnali con­fortanti arrivando 15esimo...
«In effetti ho avuto un inizio di stagione ben al di sopra delle aspettative, pu­re nella corsa norvegese dove ho potuto correre insieme alla prima squadra. Certo, va ricordato che finora non ho disputato gare di prima fascia, però intanto ho dimostrato che sto affrontando questa esperienza con la giusta mentalità: progressi psicofisici che mi danno fiducia sul lungo periodo.»
Voi ragazzi della Conti­nen­tal quanto sie­te a con­tatto con l’Alpecin World Tour?
«Facciamo insieme i ritiri in Spagna di dicembre e gennaio, e lì ca­pita di conoscersi un po’ meglio, mentre durante la stagione di­pende da corridore a corridore. Atleti come Axel Laurance e il già citato Kie­lich, già sicuri di passare l’anno prossimo, stanno facendo molta esperienza col WorldTeam. Altri come me vivono esperienze più sporadiche: accade so­prattutto in occasione di quelle gare in cui ti aggregano alla prima squadra, com’è stato per me il Norvegia finora. Nell’arco di un’annata, tutti almeno una volta avremo vissuto un’esperienza del genere.»
Di persona hai conosciuto Van der Poel e Jasper Philipsen?
«Considera che io ho fatto il camp di dicembre ma non quello di gennaio, perché mi stavo riprendendo dall’intervento al ginocchio cui sono stato sottoposto prima di Natale. Mathieu l’ho co­nosciuto durante la Zwift Aca­de­my, Philipsen nel ritiro di dicembre: ba­nale dirlo, ma sono atleti come tutti gli altri. Hanno watt in più, sono più aerodinamici e sanno guidare meglio la bici, ma ci mettono l’impegno di qualsiasi professionista. Di sicuro non è gente che ti fa pesare di aver vinto a Roubaix o sugli Champs-Élysées».
Tra i professionisti dell’Alpecin Deceu­ninck ci sono pure i quattro italiani Jakub Mareczko, Stefano Oldani, Kristian Sba­ragli e Nicola Conci: che rapporto hai con loro?
«Soprattutto coi tre scalatori Sbaragli, Oldani e Conci, e con Robert Stannard che viveva a Gavirate da Under 23 e par­la italiano, abbiamo lavorato molto insieme a dicembre e abbiamo legato abbastanza. Una piccola colonia di italiani in una squadra a forte matrice belga».
Con l’inglese come va?
«Lo capisco perfettamente e lo parlo abbastanza bene, non è uno scoglio».
Tornando all’italiano: da dove viene il soprannome di Bandito?
«Quando ero più piccolo mio papà mi chiamava Lukito il Bandito e nel 2019 (anno in cui, co­me vedremo più avanti, Luca ha iniziato ad allenarsi duramente dopo la fine della parentesi agonistica nel ciclismo giovanile ndr) ho deciso di metterlo come nickname su tutti i miei social, compreso Strava. Ha avuto un discreto successo e ho deciso di mantenerlo anche quando sono entrato in Alpecin Development. Ci avevo pensato su, temevo fosse troppo goliardico e potesse causarmi qualche presa in giro, invece vedo che viene preso bene dai miei compagni, scherzosamente il giusto. In tanti si divertono con affetto a chiamarmi Bandito, addirittura Ol­dani mi chiama Zorro dato che è la mia immagine profilo».
Tipica domanda per i milanesi: sei di “Mi­lano Milano” o dell’hinterland?
«Sono di Mi­la­no cit­tà. Non il posto mi­gliore dove allenarsi...»
Lo sappiamo bene, purtroppo. I tuoi luoghi di allenamento preferiti, difatti, sono le salite lombarde ben al di fuori della me­tropoli: quanti KOM (King of the Mountain, il tempo più veloce di percorrenza di una salita registrato su Strava) detieni attualmente?
«Non so con esattezza, mi è sempre più interessata la qualità che la quantità dei KOM. Così su due piedi mi ven­gono in mente Mortirolo (da Maz­zo), Cancano, Roncola, Selvino, Sant’Antonio Abbandonato... sono al­cune delle salite a cui sono più affezionato, dove amavo e amo allenarmi e, a fine estate, provare a confrontarmi con gli altri e con me stesso. I miei KOM sono una conseguenza, non un obiettivo. Ma capisco e ammiro chi invece ha quel pallino».
Quando hai visto la tappa di Bergamo al Giro d’Italia avrai sentito un’aria familiare!
«Esatto (ride ndr) anche se lì la facevano da Barlino e non da Almenno San Salvatore, quindi non correvo il rischio che migliorassero il mio tempo».
Non sei un fissato dei KOM, però tu e il tuo socio Mattia Gaffuri li avete usati come gioco di parole per creare il vostro podcast “Ciclismo Kompetente”.
«Un’idea nata a settembre per l’anno scorso. Io e il Gaffu condividiamo una grossa passione per l’allenamento e la scienza applicata alla bicicletta: abbiamo voluto sfruttare le nostre conoscenze in questo ambito e in ogni puntata tocchiamo vari argomenti legati alle “sport sciences”. In pratica facciamo divulgazione scientifica sull’attività ciclistica: a volte portiamo un articolo, altre volte qualcosa di più pratico, talvolta rispondiamo a domande che ci vengono poste su Instagram. Cer­chiamo di aiutare amatori e ciclisti di categorie giovanili per aiutarli a evitare certi errori che noi stessi abbiamo fatto da juniores e U23 quando non eravamo seguiti da nutrizionisti e allenatori. At­traverso questa ora settimanale diamo consigli a ragazzi che s’impegnano tanto, ma senza accorgersi commettono errori che compromettono le loro prestazioni: noi li stimoliamo e li avviciniamo alla scienza della bici».
Oltre a ciò, fate servizi di coaching e consulenza ad personam.
«Esattamente. Sia io che Mattia siamo allenatori e seguiamo alcuni atleti, oltre a fornire consulenze singole a qualcuno che non cerca un coach ma ha ne­cessità di qualche indicazione specifica per affrontare la stagione o una gara, o che cerca suggerimenti su come migliorare i propri allenamenti. Stiliamo sia piani personalizzati generici che possono andar bene ad amatori o giovani ago­nisti in generale. Così veniamo in­contro alle differenti esigenze tecniche e disponibilità economiche».
In questo momento quanti atleti segui per­sonalmente?
«Circa venticinque. Devo però riflettere e capire che direzione deve prendere la mia vita, e di conseguenza la parte di coaching. Il lato positivo di svolgere questa attività è il mantenere la mente allenata e spostare i pensieri rispetto al lavoro da corridore Continental. Il contraltare negativo è che conciliare tutto è davvero impegnativo. Ad esempio, alla fine di questa intervista mi metterò a fare programmi per i miei atleti. La scorsa settimana, quando ho corso in Norvegia e Alta Austria quasi senza soluzione di continuità, mi dovevo trovare un’ora o due di spazio durante le corse per lavorare al pc, togliendo spazio al recupero e allo svago».
Per capire meglio da dove viene Luca Ver­gal­lito, ci racconti la tua storia ciclistica fin dall’inizio?
«Il mio amore per la bici nasce da bambino: papà iniziò a pedalare a circa trent’anni e mi trasmise la passione. Per tanti anni però rimase tale: pedalavo soprattutto in estate quando andavo in Valtellina dalla nonna; durante l’anno praticavo un altro sport principale (prima fu il calcio, poi passai al nuoto e infine all’atletica) e pedalavo un pochino nel weekend. A 15-16 anni ebbi problemi fisici legati all’atletica e decisi di passare al ciclismo. Faticai a trovare una squadra, anche perché una delle criticità del ciclismo italiano è che è difficile entrarci se non hai iniziato da più giovane. Feci un breve periodo di triathlon, dove mi appassionai sempre meno al nuoto e sempre più alla bicicletta, finché nel 2014 ebbi l’importante opportunità di entrare nel Team Giorgi. Lì feci il biennio Juniores e nel 2015 vinsi la Ce­ne-Gazzaniga: incredibile! Il successivo biennio da Under 23 (prima in Named e poi in Overall) fu però disastroso e preferii interrompere il percorso nel ciclismo competitivo per co­minciare quello universitario.»
Nel 2017 quindi intraprendi un bi­nario parallelo: Scienze Motorie alla Statale di Milano e tanto allenamento in sella...
«Devo dire che inizialmente sentii il bisogno di staccare dalla bici. Tornai a pedalare nel 2019 e presi ad allenarmi come un Under 23 se non di più. Nel biennio ’19-20 non ho fatto competizioni, ma ho migliorato molto i miei va­lori mettendo in pratica autonomamente ciò che stavo studiando. Nel 2020 ho conseguito la laurea triennale con lode e, oltre a iscrivermi alla Ma­gi­strale (sempre di Scienze Motorie) mi sono iscritto alla squadra amatoriale Officine Mattio».
Nuovo binario parallelo dunque.
«Nel biennio 2021-22 ho dato gli esami all’università e partecipato ad alcune granfondo: ho vinto la Fausto Coppi, la Re Stelvio, la Sestriere, la New York, la Haute Route Alps e la Tre Valli Varesine. L’obiettivo però non era quello: mi allenavo per me stesso e perché credevo che prima o poi avrei potuto trovare la via per entrare nel ciclismo professionistico».
In questi anni hai avuto a che fare in qualche modo col mondo dei pro?
«Ci sono stati alcuni contatti con squadre professionistiche, non concretizzati. Soprattutto, tramite l’università ho svolto due tirocini legati a WorldTeam: a fine 2021 tre mesi in BikeExchange-Jayco nell’equipe di Marco Pinotti che analizza le performance a cronometro; a inizio 2022, cinque mesi a Lovanio nella Bakala Academy, laboratorio di riferimento della Soudal Quick Step».
Alla fine la laurea magistrale l’hai presa?
«Manca solo la tesi, che però ho deciso di “mettere in pausa” per concentrarmi sul resto delle mie attività. Ad ogni mo­do, leggo e mi aggiorno per restare al passo con la scienza applicata al ciclismo».
E così ci ricolleghiamo al recentissimo pas­sato: in autunno, con alle spalle un an­no e mezzo abbondante di amatoriale e altri due precedenti di “allenamento de­gno di un Under 23”, crei il tuo podcast settimanale insieme a Gaffuri (che con la maglia dello Swatt Club vince a sua volta diverse granfondo) e ti iscrivi alla Zwift Academy...
«Conoscevo dalle edizioni precedenti quel programma di allenamento e selezione indoor, ma di solito settembre è un periodo infelice per “rullare” dato che il clima è ancora bello e si tende a pedalare ancora in strada. L’anno scorso però mi ero allenato molto sui rulli tra gennaio e maggio quando ero in Belgio, poiché durante lo stage in Ba­kala non avevo molto tempo di uscire in bici. Ho deciso allora di mettermi alla prova e la prima fase di test sui rulli di casa mia è andata benone: a ot­tobre sono stato tra i cinque uomini scelti per andare a Denia, nella Comu­nità Valenciana, dove il mese successivo si sarebbe svolto il training camp, in compagnia anche di altrettanti professionisti dell’Alpecin Deceuninck tra cui Van der Poel».
E siamo giunti a novembre: la settimana conclusiva!
«Ogni giorno un paio di prove, che possono essere o sui rulli o su strada: ci sono due eliminazioni e alla finale accedono in tre. Da questa finale a tre scaturisce il vincitore, che ottiene il contratto con l’Alpecin Development (identico percorso viene affrontato dal­le donne, con la differenza che la squadra di riferimento e destinazione è la Canyon Sram). Sottolineo che non è detto che a ottenere il contratto siano automaticamente colui e colei che vincono le prove. Sono i tecnici di Al­pecin e Canyon a decidere, e le loro valutazioni si basano sia sulle performance nelle prove finali sia sui parametri fisici complessivi sia su altri aspetti come le capacità di guida e quelle relazionali. Alle squadre non interessa prendere il corridore con la storia più stramba o necessariamente coi watt più alti, bensì quello più meritevole e potenzialmente in grado di arrivare al professionismo in pochi anni».
Cosa rispondi alle critiche di commentatori e appassionati?
«Sono abbastanza futili. C’è persino chi mi accusa di aver rubato il posto a un altro giovane italiano che ha fatto la trafila da Giovanissimi a Under 23 e non riesce a passare. Ma chiunque ab­bia un rullo e un pc può provare a di­mostrare di meritarsi quel posto: io e Alex Morrice, la ragazza inglese che ha vinto tra le donne, siamo stati vincitori di una Zwift Academy da 160mila iscritti in totale! E comunque, se i giudici si trovano in finale un atleta con già un background di ciclismo competitivo a certi livelli sono ancora più felici».
L’ultima tua affermazione però sottintende che i corridori provenienti dalla Zwift Academy e digiuni di “trafila tradizionale” mediamente presentino qualche limite...
«Sicuramente per essere un top professionista non basta avere 520 watt sui 5 minuti o scalare il Coll de Rates a 394 watt medi: le qualità tecniche e tattiche sono altrettanto decisive e sappiamo bene che, per quanto nel camp finale i giudici osservino attentamente se in bici ci sai andare o no, quella parte non può essere controllata con la stessa accuratezza di quanto sono invece controllati i numeri. È possibile quindi che un atleta proveniente dal “modello Zwift” sia carente sotto i punti di vista sopracitati, io in prima persona sono consapevole di dover migliorare nello stare in gruppo o nell’andare a canna in discesa. Queste però sono abilità mi­gliorabili rispetto ai wattaggi: è molto più facile insegnare a un corridore ad andar forte in discesa facendogliela fare dieci volte piuttosto che aumentare di cinquanta watt i valori in soglia di un corridore “piantato”. Perciò trovo che uno scouting basato anche su un programma tipo Zwift Aca­demy abbia scientificamente senso».
Per l’appunto, siamo sicuri che un tipo di percorso escluda per forza l’altro?
«Ma no, esatto! Da un lato è sbagliatissimo pensare, come insinuano pure certi addetti ai lavori, che quella che ho scelto io sia una facile scorciatoia per gli Under 23: non è che ti fai un’ora di rulli al giorno e in automatico vinci. È un lavoro diverso da quello del ciclista agonista vero e proprio, che non comporta ma­gari la fatica delle trasferte e tutto il re­sto, ma richiede anch’esso impegno e sacrifici. D’altro canto, penso che un percorso si sia semplicemente aggiunto all’altro: entrambi hanno i loro pro e contro e non devono assolutamente farsi la guerra. Anzi, volendo si possono integrare: un atleta può farsi la sua stagione su strada e poi in autunno-inverno tentare la Zwift Academy: gli australiani Alex Bogna e Jay Vine, entrati nelle squadre Alpecin vincendo le due edizioni precedenti alla mia, contrariamente a me correvano già in formazioni Continental quando vi si sono iscritti».
Appurato e ribadito che non dev’essere una lotta “Zwift Academy contro la tradizione”, intervistare un ragazzo con la tua storia ciclistica è una bella occasione per lanciare uno sguardo critico, ma costruttivo, alla trafila giovanile per come funziona oggi in Italia: quali sono secondo te i principali problemi?
«Innanzitutto il calendario italiano Under 23: molti circuiti e relativamente poca salita. In pratica, la nostra categoria U23 fa una selezione basata su cor­se dai profili che raramente poi si ve­do­no nel gran professionismo. Inoltre, al ritorno dal Giro dell’Alta Austria, mi è capitato di parlare con Dario Igor Belletta e Pietro Mattio (i due “primo anno” italiani della Jumbo Visma De­velopment, ndr) del loro calendario: mentre i loro omologhi italiani tendono a correre quasi due volte a settimana, loro corrono due volte al mese ma disputano più gare all’estero e più prove a tappe.»
La formula giusta sarebbe: correre meno, ma correre “meglio”?
«Quando correvo da Under 23 soffrivo le continue trasferte per an­da­re a correre tutte le domeniche e tanti marte­dì. Questo non permette una crescita adeguata, perché hai meno tempo ed energie mentali per allenarti duramente: devi sempre pensare a cercare la prestazione nella prossima gara e non puoi soffermarti sui miglioramenti da poter e dover fare sul lungo termine. Non è che le corse italiane siano meno difficili in assoluto rispetto a quelle estere, il problema sta proprio nella frequenza: se nel prossimo mese ho sei, sette o addirittura otto gare, nei giorni in cui non corro non farò lavori particolari, gran volume o intensità, perché dovrò arrivar fresco all’appuntamento successivo. Di conseguenza, in quei cinque-sei mesi di stagione agonistica correrai tantissimo ma di fatto ti allenerai poco, non ci saranno mai i pe­riodi di una o due settimane in cui fai un carico specifico per potenziare il tuo allenamento normale.»
Calendari a parte, cos’altro dovrebbe cambiare secondo te nel sistema del ciclismo giovanile italiano?
«Ci vorrebbero staff tecnici più preparati a livello scientifico: non per forza laureati, ma persone con sufficienti competenze sull’allenamento e l’alimentazione che possano evitare sbagli dannosi per la carriera dei corridori. Ancora oggi in Italia un sacco di squadre dicono ai ragazzi che non devono mangiare perché devono essere più leggeri possibile e fanno fare certi allenamenti che non servono a niente. Ci so­no direttori sportivi e preparatori rimasti fermi agli anni Novanta, al loro passato da professionisti, e non si sono aggiornati».
Abbiamo accennato alle polemiche che provengono dall’esterno, ma anche tra gli attuali ciclisti professionisti serpeggia un retropensiero verso Zwift Academy et si­milia?
«In parte sì. Ho l’impressione che qualcuno in gruppo dubiti delle capacità di guida dei corridori come me: la tipica diffidenza verso chi è più impacciato, a prescindere dalla trafila svolta, il timore che abbia più probabilità di causare cadute e creare pericoli. Sta a noi spazzar via il pregiudizio e dimostrare che possiamo performare tanto quanto loro a livello sia fisico che tecnico».
Per concludere, torniamo prettamente a te: dopo un quadriennio da coach di te stesso e di altri atleti, com’è ora avere un coach che guida la tua preparazione?
«Non è stato facile, lo ammetto: anche con l’allenatore più bravo del mondo, ci sarà sempre qualcosina che penso o farei diversamente. Al netto di ciò, sono contentissimo di aver trovato in questo ruolo Philipp Walsleben, ex stradista e crossista che fino a due stagioni fa correva in Alpecin e appena ritiratosi è entrato nello staff tecnico. Ab­biamo dialogo e confronto, mi ascol­ta e rispetta il mio background di conoscenze: io gli fornisco sensazioni e indicazioni e lui mi comunica le sue idee, le elaboro e insieme troviamo il punto d’incontro. Quando sono entrato in squadra sapevo di essere migliorato in questi anni grazie ai miei metodi e avevo un po’ di timori ad avere un preparatore, ma per fortuna ho trovato una persona come Philipp con cui il lavoro viene semplice.»
In definitiva, che tipo di corridore sei?
«La salita mi piace, ma col mio metro e novanta non posso essere uno scalatore. Mi vedo come un uomo squadra, ideale per correre a supporto del capitano, con licenza di vincere tappe o ga­re da un giorno compatibilmente col mio valore del momento. Per poter fare classifica in una corsa di massima categoria, col livello altissimo che c’è oggi bisogna riuscire a fare un salto di qualità davvero elevato: magari ce la farò, magari no, ho tanta strada da fa­re».
Atleta, coach, divulgatore, e quella tesi ma­gistrale messa per ora nell’angolino... ci sono momenti in cui pensi a qualcosa che non sia il ciclismo?
«Praticamente no, quella per bicicletta e allenamento è una vera ossessione! Una passione bellissima, ma il pericolo è che, se lì ti va male qualcosa e la tua testa è in grado di pensare solo al ciclismo, la tua giornata è rovinata.»
Il miglior augurio che possiamo allora rivolgere a Luca Vergallito è di trovare il giusto equilibrio in questa bellissima ossessione.

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