Sergio, l'amico speciale
di Gian Paolo Porreca
Parlare di un amico di vita e di lavoro che non c’è più, non è mai banale, non è mai superfluo. Ma onorare poi qualcuno che singolarmente, nel tuo recinto di esistenza quotidiana, avresti trovato clamorosamente ed inattesa/mente speculare a te, e compagno dunque in parallelo metaforico di tante sensazioni sportive, questo poi diventa una devozione, meglio una riconoscenza dovuta, senza limiti alla gratitudine.
Sergio, Sergio Giaquinto, scomparso a metà giugno, uomo di studi giuridici e dirigente amministrativo dell’Ospedale Monaldi di Napoli, dove ambedue abbiamo trascorso quaranta anni di rigore e affetto per i pazienti e la sanità pubblica di una città discontinua, era una persona speciale, e specialmente però. E non solo perché lui, pure da un quaderno minuto e preciso
di revisione di bilancio, uomo colto, amava certo i boulevard di Parigi e le piramidi dell’Egitto, così come i più segreti vicoli di Napoli in salita e in discesa, Napoli una città abbarbicata alla collina, ma perché coltivava una passione putativa e mai abbastanza illuminata, lui così riservato, per il ciclismo.
E sono i modi infiniti delle affinità sentimentali che - non solo nel piccolo continente del ciclismo - sanno accendersi di una luce condivisa.
Aveva letto, allora, quando ci frequentavamo di rado, un giorno sul Mattino un mio ricordo di quelle Riunioni tipo Pista che si svolgevano a Napoli il 1° maggio, primissimi anni ’60, sul lungomare: era un plebiscito per la Festa del Lavoro, era un amarcord prediletto per me tuttora mai estinto, come lo è l’infanzia nel nome sacro del padre… Ebbene, una settimana dopo mi arrivò quella sua prima telefonata, non di routine, sul numero interno il “258” del Reparto di Chirurgia Cardiovascolare, anni ’90, in cui non parlammo più aridamente di preventivi per la Sala Operatoria e di fili da ordinare… «Che bello quel tuo ricordo, Paolo, ma tu non sai di chi io ero parente, io sono stato il nipote del Cavaliere Giuseppe Improta, il vicepresidente napoletano della UVI, che di quelle Riunioni era stato proprio l’ideatore e l’organizzatore...».
E da allora, dalla traccia remota su via Caracciolo di Maspes e Gaiardoni, Gaignard e De Bakker, germogliò quella nostra amicizia senza eguali. Un feeling che ripose senza riserve, sul lato minore del tavolo da scrivania, i documenti legali e le pratiche sindacali.
Aveva una passione ancora, da collezionista, per le piccole memorie, per gli album di figurine... E sono ancora così nella mia libreria, fra il Coppi di Ollivier e i Racconti di ciclismo di Brunamontini, le raccolte dei ciclisti Panini del ’72 e ’73 che mi donò, per qualche onomastico, credo. Escono fuori dalle pagine e scivolano talora dagli spazi dedicati ancora Bolke e Kunde, Letort e Bracke, ma tornano subito al loro posto, come soldatini di servizio permanente, dopo aver preso un giro di luce.
La vita poi, e le passioni sarebbero andate come sono andate. Anche la mia vanagloria per il ciclismo olandese, su cui lui sorrideva.
Ma un bel giorno, o solo un giorno come tanti, il mio amico Sergio seppe davvero superarsi. Era il 2013, Internet non era proprio esercizio routinario, stavo finendo il libro su Merckx, e mi arrovellavo a fatica su Pietro Scandelli, l’unico italiano della Faema che aveva corso e concluso con Eddy il Tour vittorioso del 1969. Quel Tour di enorme valore simbolico, dopo l’espulsione del campione belga dal Giro... «Che bello, chiedere un racconto a Scandelli, ma come potrei fare?», ne parlavo con lui. E detto fatto, lui napoletano ciclofilo e di parola, cinque minuti esatti, e guarda Sergio che mi richiama, dopo una ricerca senza prezzo se non l’affetto: «eccoti il numero fisso di Pietro Scandelli, trovatoooo. Chiamalo subito, aspetta una tua telefonata, lo fai felice, non pensava più che qualcuno potesse ricordarsi ancora di lui, e del Tour 1969. Ha un bar vicino Crema, lo sapevi?».
No, non lo sapevo. Come tante altre cose ignoravo del tempo. E come non avrei conosciuto nella vita di Napoli e del ciclismo amici sinceri come Sergio Giaquinto. Che si firmava alla francese ‘Serge Jacqueent’, quando voleva privatamente e per cuore transalpino scrivere del ciclismo, con la fantasia al comando. Brindando a champagne.