Davide Rossetti: «Sidi deve far pesare il suo essere marchio di qualita e deve aprirsi al mondo»

di Pier Augusto Stagi

Frammenti di storia, scampoli di vita, pezzetti di minuteria umana, particelle di intelligenza e di emozioni incontrate, bri­ciole di umanità, ma soprattutto spicchi di sogni per un pallone... a spicchi: da conservare, cu­rare e addormentare prima dei sogni, prima di un canestro da tre, dopo una giocata da ricordare. Schegge di memoria.
La vita può essere cerchio e anello, da far rotolare o da centrare. È un richiamo incondizionato, apparentemente senza un senso, senza un perché, ma è la vita che è così: vedi una palla e da­vanti al tuo naso puoi avere una porta o un anello e ti viene da calciare o da tirare a canestro. Per Davide Rossetti è stato così.
Davide Rossetti non è più un ragazzo, oggi è l’amministratore delegato della Sidi, azienda leader nella produzione di scarpette da ciclista e stivali da motociclista, ma si muove e pensa come allora, come se calcasse ancora il parquet di un palazzetto. Come se avesse ancora quel pallone a spicchi tra le mani a riempire le sue notti, anche se la sua chioma è bianco-crinita e ora il suo rettangolo di gioco è il mondo, con le sue opportunità e tanti anelli da centrare, in ogni caso colpi da tre punti.
Nasce nella Serenissima il 12 febbraio 1968, ma da sempre cresce lì vicino, a Mestre appunto. Poi, in mezzo, per mo­tivi di lavoro ci sono anche Como e Torino, Bergamo e Osio. Mamma Da­nie­la e papà Giancarlo sono veneziani doc. Papà direttore alberghiero, mam­ma casalinga. A Mestre le scuole dell’obbligo, a Bologna l’Università: Eco­nomia Aziendale.
«Papà dirigeva alberghi di lusso, di grande prestigio, quattro o cinque stelle e quindi questo fatto di essere a contatto con il turismo e di parlare correttamente inglese, francese, spagnolo e un po’ di tedesco mi ha permesso di in­cominciare subito a conoscere il mon­do. Prima in Europa, poi nella prima me­tà degli Anni Ottanta in Marocco, Co­sta d’Avorio e anche a Cuba».
Come definirebbe la sua infanzia?
«Nonostante io oggi segua la moto e la bicicletta, sono monotematico: amo il basket. Per me è davvero una grandissima passione. Ancora adesso sto sveglio la notte per vedere le partite di NBA. Ho giocato fino a 31 anni. Ga­leotta è la mamma, che abitava proprio da­vanti ad un campo da basket che all’epoca, agli inizi degli Anni Cin­quanta, erano rigorosamente all’aperto. Lì giocava la Junghans Venezia e abitualmente mamma per anni vedeva le partite dalla sua finestra di casa. Un giorno, quando io avevo 8 anni, mi chiese: “Vuoi che ti porti a giocare?”. Non me lo feci ripetere due volte: fu amore a prima vista. Deve sapere che negli Anni Settanta Mestre (fu il primo ad arrivare a vincere almeno un titolo giovanile in tutte le categorie, ndr) Can­tù e Bologna erano dei vivai importantissimi per il basket giovanile. Forse i più importanti d’Italia. In quelle giovanili, dove io giocavo, in­contrai tecnici che ancora oggi vanno per la maggiore come Ettore Messina, og­gi alla Ar­mani; Emanuele “Lele” Molin fin a poche settimane fa capo al­lenatore di Trento in A1; Stefano Bizzosi, che è responsabile del settore giovanile di Varese e Claudio Bardini, per anni allenatore di A1 e oggi docente all’Uni­ver­sità di Udine. Indimenticabile, per me, la stagione ’82-83: come Lebole Mestre vincemmo il titolo italiano categoria allievi battendo in finale a Benevento la Scavolini Pesaro. Ancora oggi, con quei ragazzi fattisi uomini, ci si incontra periodicamente. Facciamo ancora squadra».
Poi cosa è successo?
«Che si cresce, nel senso che si diventa adulti, uomini, perché io per ambire ad essere un cestista purtroppo non sono cresciuto d’altezza a sufficienza. E poi i miei genitori mi misero dei paletti invalicabili: c’è da studiare! La pallacanestro è comunque restata il mio momento ricreativo e di svago».
In che ruolo giocava?
«Come playmaker, creatore di gioco. Come le dicevo, papà e mamma erano contenti ma non contentissimi. Ci tenevano a che facessi sport, ma allo stesso tempo non hanno mai voluto che di­ventasse per me qualcosa di più importante e impegnativo, qualcosa che po­tesse distogliermi da una formazione sco­lastica. È probabile che non fossi dotato più di tanto, ma loro sono stati chiaramente il mio freno: lo studio co­me priorità, il resto non contava. In ogni caso il basket per me è sempre stato qualcosa di speciale, tanto è vero che dormivo con la palla a spicchi ed è rimasta una valvola di sfogo che ho appagato nel periodo degli studi universitari diventando istruttore di minibasket e allenatore federale».
Liceo?
«Scientifico, all’Ugo Morin di Mestre».  
A Bologna l’Università.
«Con tanto basket e tutti gli esami in economia aziendale. La tesi l’ho poi abbinata ad un caso aziendale e sono andato a farla a Longarone, alla De Rigo, azienda del settore dell’occhialeria, e non è un caso che nel 1994, dopo essermi laureato, entro proprio in Sa­filo. Ho 26 anni e finisco dritto dritto al marketing, dove scopro due cose: una, la possibilità di viaggiare; due, collegare lo sport al lavoro. Il caso ha vo­luto, infatti, che Safilo acquisisca proprio in quel preciso momento due marchi sportivi d’eccezione: la Carrera, marchio d’occhiali austriaco, e la Smith Optics, marchio americano. Nella vita occorre avere fortuna, ma essere anche pronti a cogliere le opportunità. Con queste due acquisizioni importanti, mi ritrovo dove mi sarei voluto trovare. Vie­ne di fatto creata una divisione sport e io, grazie alla fiducia e alla vi­sio­ne del mio allora capo marketing Gior­gio Rizzo, divento product-manager, punto di riferimento di questa neonata divisione e insieme a lui trovo an­che Tiziano Russolo, allora direttore commerciale sport ma che poi ha trascorso vent’anni tra Nike e Converse in posizioni apicali. Per Carrera si ha a che fare con caschi maschere e occhiali per ciclismo e sci alpino. Per la Smith si lavora per quello che veniva definito il mondo ac­tion-sport: surf, snowboard, skate e motocross. Eravamo nel 1996 e la prassi era trascorrere una settimana a Pa­dova e una a Traun in Au­stria. Una a Padova e l’altra in America, a Sun Valley nell’Idaho e via così, di settimana in settimana… Non ci si annoiava. Per un ragazzo non c’era nulla di più stimolante e gratificante».
Quanti anni sta in Safilo?
«Sette anni, dal 1994 al 2001».
E dopo?
«Entro nella galassia Diesel di Renzo Rosso, per il marchio 55DSL, abbigliamento sportivo. Sede in Svizzera, vivo però a Como. Tutto bene fin quando non diagnosticano a Luca, mio fi­glio di appena due anni, il diabete di tipo Uno. La notizia è per noi devastante e si crea immediatamente l’esigenza-urgenza di tornare vicino a casa. Visto che con 55DSL non è possibile, nel dicembre 2004 accetto la direzione marketing della Gas di Claudio Grotto: torno in Veneto e lì resto un anno e mezzo, dal gennaio 2005 a fine luglio del 2006. Poi accetto la direzione marketing in Invicta, che era stata ap­pe­na comprata dal Gruppo Seven. Espe­rienza questa bellissima e assolutamente stimolante a livello professionale. Ma ancor più stimolante è la mia esperienza in Cisalfa, come direttore marketing, dove c’erano anche un re­par­to bike, ricchissimo di accessori, e anche un reparto basket. Una esperienza che mi ha arricchito tantissimo, sia sotto il profilo umano che professionale. Inoltre lavorare nel retail è davvero molto stimolante. Nell’industria, se un prodotto non andava, lo presentavi alla successiva collezione. Nel retail non funzionava così, perché se una cosa non funziona oggi, non funziona neanche domani e non ti puoi permettere mai un segno meno. Nell’industria guar­di i dati una volta alla settimana, nel retail quattro volte al giorno. E se non funziona bisogna attuare delle azioni correttive velocissime. Qui ci resto fino al 2013, quando poi torno nel mondo dell’industria e in particolare in un family business ma di dimensione multinazionale».  
Torna nell’industria, ma dove va?
«Vado alla Alpinestars di Gabriele Maz­zarolo, con il ruolo di Global Seal Sales and Marketing Director cycling e ci resto cinque anni, fino all’inizio del 2018. Azienda stupenda, che era in for­te crescita, leader mondiale nella moto e che da un po’ di anni, partendo dal downhill, aveva incominciato un progetto molto ambizioso anche con Hon­da e Maxxis. La mia esperienza in questa azienda e al fianco di un im­prenditore molto capace e ambizioso co­me Gabriele Mazzarolo è stata istrut­tiva come poche altre. Ho avuto la fortuna di lavorare davvero con un fuoriclasse assoluto».
Poi arriva la Northwave.
«Esattamente, ci arrivo come direttore generale. Vado a lavorare per Gianni e Federica Piva e qui resto fino al 25 ot­tobre 2022. Grande lavoro, grande progettualità, facciamo cose molto belle, perché l’azienda si presta e i Piva sono persone non solo perbene, ma che han­no idee e lasciano spazi».
Poi però decide di cambiare ancora strada…
«Per puro caso. Non mi passava neanche per l’anticamera del cervello di cambiare, perché stavo bene dov’ero, con i Piva e i risultati andavano nella giu­sta direzione. C’erano tutte le condizioni per continuare a fare bene».
Però…
«Mi arriva inaspettatamente una chiamata da una società specializzata in ri­cerca del personale. Nella fase iniziale la ricerca era confidenziale e vado ad ascoltare senza sapere chi fosse l’interlocutore e che cosa stesse cercando. In realtà dietro c’era Italmobiliare (la in­vestment holding di Carlo Pesenti, ndr), parte una serie di interlocuzioni e incontri che mi hanno portato nel lu­glio dello scorso anno a dare le dimissioni da Northwave per arrivare in Sidi con la qualifica di amministratore delegato il 25 ottobre 2022».
Come è essere a capo di una delle aziende storiche del made in Italy?
«Quando ero in Alpinestars ho sempre visto con ammirazione l’azienda creata da Dino Signori. È sempre stato mo­dello e riferimento. La cosa bella è che alla base di questa operazione con Ital­mobiliare c’è un accordo tra due im­prenditori che vengono dal family-business, perché di fatto Dino Signori è una famiglia e l’ingegner Carlo Pesenti, con Italcementi prima e Italmobiliare, ha all’origine sempre una famiglia. Que­sto comporta per me un rapporto molto più diretto con la proprietà. Fat­to di interlocuzioni e confronti diretti costanti. Riassumendo: a differenza di molti Fondi, qui c’è molta più complicità e interazione. La proprietà è stata chiarissima: noi con i nostri team sia­mo pronti a darle, dove necessario, tut­to il supporto che serve a lei e al suo team per portare avanti un progetto di crescita. Per quanto riguarda invece tutto l’aspetto riguardante la sostenibilità, nel quale Italmobiliare ha una grandissima esperienza, beh, in questo caso l’interazione è maggiore per non dire naturale e scontata».
Cosa ha trovato in SIDI?
«Un brand eccezionale, con una storia tutta da conservare e far conoscere an­cor di più nel mondo. Ho trovato un gruppo di dipendenti che sono super appassionati e attaccatissimi all’azienda, cosa non del tutto scontata. Anzi, le dico che è la prima volta che mi capita di non vedere una sola persona che do­po tanti cambiamenti viene e dà le di­missioni. Tutti sono orgogliosi di far parte di questa azienda e allo stesso mo­do sono felici di far parte di questa nuova avventura. Sono consapevoli di aver scritto pagine importanti di storia, ma sono felicissimi di continuare a scri­verne delle altre, sempre più importanti. Ho trovato un tessuto professionale molto fertile e competente: questo è chiaramente un valore aggiunto. Poi, in un momento storico in cui si parla sempre di più di reshoring, noi abbiamo il vantaggio di avere già tutto e di proprietà in Europa, tra Italia e Ro­mania».
Come sono stati i primi mesi…
«Di studio. Abbiamo identificato una product roadmap, un percorso di prodotto, per i prossimi tre/cinque anni sia per la bici che per la moto. Contem­po­raneamente stiamo lavorando sulla parte marketing visto che negli ultimi dieci anni la comunicazione è cambiata moltissimo».
Cosa vorrebbe che diventasse Sidi?
«Vorrei far diventare la produzione italiana, quella più avanzata e manuale, un’eccellenza. Il su misura, la customizzazione, la personalizzazione devono tornare ad essere una nostra cifra distintiva. Dove c’è bisogno della competenza dell’uomo e della qualità in quello che viene fatto a Maser, si deve vedere. Si­di è Sidi e noi vogliamo continuare a fare scarpe di alto li­vello. Diciamo che c’è un mercato che da azienda leader dovremo tornare a presidiare».
Le prime mosse?
«Dopo aver conosciuto l’azienda, composta come le ho detto da una for­za lavoro davvero molto qualificata, sia­mo andati ad inserire delle figure apicali ne­cessarie. Abbiamo collocato al nostro in­terno profili più elevati. Per questo è arrivato Da­vide Slon­go che è an­dato a ricoprire il ruo­lo di capo dell’ufficio prodotto (20 anni in North­wa­ve e 10 Fizik): con lui stiamo facendo un lavoro che ci condurrà ad avere un SidiLab che dovrà avere le macchine e tutte le tecnologie per po­ter valutare e testare materiali e prodotti. Per far questo intensificheremo i nostri rapporti con i vari atleti e piloti, per arrivare a creare un più stretto connubio tra azienda e atleta per lo studio e la ri­cerca dell’eccellenza. Noi dobbiamo tornare a fare quello che Sidi ha fat­to per una vita. Allo stesso tem­po dobbiamo strutturarci, quindi verrà co­struito un nuovo polo logistico adeguato ai tempi, senza trascurare la ricerca e la formazione, che si traduce in collaborazione con le Università di Venezia e di Padova, con realtà come H-Farm, l’ITS Cosmo qui a Monte­bel­lu­na, per avvicinare giovani che saranno necessari alla rigenerazione aziendale: non posso essere io a dire cosa va fatto con tik-tok. Nel 2008 Procter & Gamble disse: perché devo avere 100 ingegneri quando il mondo è pieno di idee? Noi non siamo chiaramente la Procter & Gamble, ma penso ad una Sidi con le porte aperte. Dobbiamo ascoltare il mondo per intercettarlo».
Quanto c’è del playmaker oggi in lei?
«Il basket mi ha permeato. Il play si muove in funzione di chi ti trovi davanti, di quale difesa devi superare, in quale momento della partita sei, ha l’onere e l’onore di scegliere anche per gli altri perché di fatto è un po’ il filo diretto con l’allenatore, l’uomo di raccordo della squadra, e devo dire che sicuramente questa esperienza-scuola mi ha lasciato tanto. Noi tutti siamo una serie di esperienze vissute. Siamo quello che abbiamo amato e coltivato, incontrato e sfiorato. Siamo un insieme di tante storie, di molte esperienze, l’importante è poi farne una linea gui­da, un format di lavoro».
Sposato.
«Sì, ma anche divorziato. Da sette anni vivo felicemente con Fanny».
Figli?
«Due - Luca di 21 anni e Aurora di 17 - più uno acquisito - Leonardo di 21 anni, figlio di Fanny».
Il suo colore preferito?
«Bianco e rosso: quello del basket Me­stre, ma anche della Sidi».
Musica.
«Tutta».
In particolare.
«Elettronica».
Film.
«Air, la storia del grande salto, il biopic sulla storia vera dell’accordo tra la Ni­ke e la futura leggenda del basket Mi­chael Jordan, ma adoro anche “Il diavolo veste Prada”».
Attore.
«Italiano Pier Francesco Favino. Stra­niero Robert De Niro».
Attrice.
«Italiana Luisa Ranieri e straniera Me­ryl Streep».
C’è una cosa che non sopporta?
«La lentezza e l’indecisione».
Una cosa che ama?
«Il mare. È il mio elemento: mi porta un sacco di serenità».
Il posto del cuore?
«Le Cicladi, in Grecia».
Ha un libro del cuore.
«“La luna e i falò”, di Cesare Pavese».
Una frase che ama e le piace ripetere?
«È meglio star zitti e lasciar qualche perplessità, che aprire bocca e togliere ogni dubbio».
Il calcio le piace.
«Assolutamente no».
Il ciclismo.
«Da quando sono entrato nel mondo del lavoro sì, moltissimo, ma alla strada preferisco l’off road».
Ha un campione ideale?
«Per la mtb Greg Minnaar. Per il cross-country Nino Schurter. Per la stra­da Alberto Contador».
Il basket è la sua stella polare: altri sport?...
«Amo sciare e correre a piedi. In Tv guardo la F.1, le corse di MotoGp e Motocross, e in generale tutti gli action sport di RedBull: è una tipologia di attività che mi piace un sacco».
Un pilota che le piace?
«Nicki Hayden: bellissima persona, che ho avuto modo di conoscere personalmente molto bene fin dai tempi di Gas Jeans, una persona speciale mancata troppo presto per un incidente in sella alla sua bicicletta, di cui era ap­pas­sio­natissimo».
Un campione del ciclismo del passato?
«Da bimbo stravedevo per Beppe Sa­ron­ni».
Ha un sogno?
«Uno solo?... (ride…). Le rispondo così: penso che se da un lato è stimolante avere sogni ambiziosi, dall’altro avere sogni troppo alti sia fin troppo frustrante. Più dei sogni, io inseguo il miglioramento. Fare qualcosa per mi­gliorarsi e migliorare il mondo di cui fai parte. Se lo fai è perché puoi, ma lo devi fare perbene».
Crede in Dio?
«No».
Cosa c’è dopo?
«Spero un pallone e un campo da ba­sket».

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