di Giulia De Maio
Il Merckx più famoso nel mondo del ciclismo si chiama Eddy il “Cannibale”, ma ce n’è un altro, Axel, che è sempre più protagonista nell’ambiente delle due ruote grazie ai 45 giovani ciclisti che negli ultimi 15 anni ha lanciato nel professionismo. Il grande Eddy è il primo tifoso della Hagens Berman Axeon, squadra di under 23 piena di promesse che il figlio (il secondogenito) ha fondato nel 2009 e che si è ormai affermata come fucina di talenti nella categoria che precede quella massima. Dopo una carriera di grande livello, in cui è riuscito a mettersi al collo anche il bronzo olimpico ad Atene 2004 nella gara vinta da Paolo Bettini sul portoghese Paulinho, l’ex prof belga ha deciso di dedicarsi alle promesse «come uno zio “cool” che si diverte e aiuta i suoi nipoti».
E ci riesce molto bene. Un anno fa con il britannico Leo Hayter, ora in forza alla Ineos Grenadiers, ha conquistato la maglia rosa al Giro Under 23. Al recente Giro d’Italia Next Gen non è arrivato il bis per poco: l’irlandese Darren Rafferty si è infatti dovuto inchinare al norvegese Johannes Staune-Mittet, che in classifica generale lo ha preceduto di 47”. Il secondo gradino del podio finale più l’emozionante vittoria di tappa dello svizzero Jan Christen a Pian del Cansiglio nel ricordo di Gino Mäder, rappresentano un ottimo bilancio per il figlio d’arte che è ormai un riferimento mondiale nello sfornare i campioni di domani. In un italiano impeccabile, in collegamento dagli USA dove è di base da anni con la famiglia, ci ha svelato come lavora e rassicurato sullo stato del nostro movimento, che dalla corsa a tappe più importante per gli Under 23 esce con un pizzico di amaro in bocca.
Axel, prima di tutto, possiamo darci del tu?
«Volentieri, siamo gente di ciclismo. E parliamo nella vostra lingua, l’ho imparata correndo in Italia, soprattutto ai tempi della Polti e della Mapei e la alleno ogni volta che posso. Ho tanti amici nel vostro Paese e un legame speciale con la corsa rosa, dove ho colto una vittoria di tappa nel 2000 a Prato (uno dei 7 successi ottenuti in carriera da Axel che ha militato tra i prof dal 1993 al 2007 e vanta inoltre piazzamenti di prestigio come il terzo posto al Lombardia del 1996, ndr)».
Come fai ad avere ogni anno i migliori corridori in circolazione?
«Non c’è un segreto. La nostra è una squadra che piace, in cui gli atleti vogliono venire perché si trovano bene e cerchiamo di svolgere un buon lavoro con tutti i nuovi arrivati. Quelli che ci sono passati, ci aiutano ad attrarre i più giovani. Nonostante i risultati non manchino, ogni anno diventa sempre più difficile allestire un team di livello perché le spese sono tante, ma quest’anno abbiamo messo in piedi una bella squadra. Siamo molto felici di come è andato il Giro Next Gen. Siamo partiti con l’ambizione di vincere una tappa e ci siamo riusciti alla settima, in classifica generale abbiamo chiuso con Darren secondo e Jan settimo».
I procuratori ormai vanno a cercare i prof tra gli juniores...
«Piano piano sono convinto che questa tendenza, che si è imposta negli ultimi 4-5 anni, cambierà. I corridori ormai hanno capito che passare subito è molto difficile, il salto è troppo alto. E si comincia a vedere come anche le squadre World Tour preferiscono che i talenti su cui hanno messo gli occhi trascorrano un paio di stagioni tra gli Under 23 per garantire loro una progressione costante e farli adattare un po’ per volta alla nuova categoria».
Cosa pensi di queste carriere sempre più precoci?
«Chi passa professionista giovanissimo avrà di sicuro carriere più corte rispetto alla mia e anche a quella di ex corridori che hanno smesso di recente. Il giovane freme, è nella sua natura, ma deve essere ben consigliato e non avere fretta. Il ciclismo è cambiato tanto. Oggigiorno si corre, si va in ritiro, in altura, si sta lontani da casa per un sacco di giorni, viaggiando per tutto il mondo. Questi ritmi intensi dall’inizio sono molto pesanti, soprattutto a livello mentale, non puoi durare a lungo se sei sempre “a tutta”. Il corpo e ancor di più la testa fanno fatica a reggerli per 10-15 anni».
Al Giro Next Gen il miglior italiano in classifica generale è stato Alessio Martinelli (Green Project Bardiani CSF Faizanè), sesto a tre minuti dal vincitore. L’unica vittoria di tappa tricolore è stata firmata da Alessandro Romele (Colpack Ballan CSB), primo a Povegliano. Cosa manca al nostro movimento?
«Ritengo che non stiate sbagliando nulla e che è semplicemente una questione di generazione. Anche nel vostro Paese ci sono bei corridori, magari hanno bisogno di 1-2 anni per crescere e ottenere i risultati a cui eravate abituati o vi aspettate. Nelle varie tappe ci sono stati tanti corridori italiani ben piazzati, magari è mancato il successo pieno ma non ne farei un dramma. In Belgio ora abbiamo una generazione molto forte ma non è sempre stato così. È questione di epoche, dovete solo aspettare, dare tempo ai ragazzi di maturare».
Sullo Stelvio abbiamo assistito proprio a una brutta immagine. Tra i ragazzi squalificati per essersi attaccati ad auto e moto in corsa la maggior parte erano italiani.
«Innegabilmente è stato uno sbaglio dei corridori e dei direttori sportivi che hanno lasciato fare, hanno colpa anche loro. La decisione della giuria è stata giusta, anzi oserei dire che doveva essere presa anche negli anni passati. È successo più volte tra gli atleti staccati, poi sono i primi ad attaccare il giorno dopo... Ad ogni modo sono convinto che dagli sbagli si possa imparare e che tutti meritino una seconda possibilità. Spero sia stata una lezione e non ricapiti più».
Torniamo a te. Ti dava più soddisfazione vincere in prima persona o ti gasa di più ora aiutare i tuoi ragazzi?
«Sono sensazioni completamente diverse ma ugualmente appaganti. È come se mi avessi chiesto quando ero in attività se ero felice quando vinceva la mia squadra o quando alzavo io le braccia al cielo, questa seconda possibilità obiettivamente non capitava così di frequente (ride, ndr). Vedere primeggiare i miei ragazzi è bello perché li vedo crescere e diventare corridori, è una soddisfazione per me, tutti i collaboratori del team e coloro che credono nel nostro lavoro».
Mettiamo sul podio i traguardi che più ti hanno emozionato.
«Per fortuna ne abbiamo tagliati tanti perciò è difficile fare una classifica. Tra i momenti chiave della storia del nostro gruppo penso a Taylor Phinney, che al nostro primo anno ha vinto la Paris-Roubaix Espoirs e l’anno successivo con il numero 1 l’ha rivinta; grandi soddisfazioni sono state anche le vittorie alla Liegi e in altre corse di prestigio, il Giro dell’anno scorso è stato fantastico, ma ha valore anche ogni titolo nazionale conquistato e qualunque occasione in cui riusciamo a migliorarci. Quando i “miei” ragazzi passano nel World Tour e li vedo brillare provo altrettanto orgoglio: tra le perle che custodisco più gelosamente ci sono il Giro d’Italia 2020 vinto da Tao Geoghegan Hart, la Milano-Sanremo 2021 di Jasper Stuyven, le volate al Tour de France 2022 di Jasper Philipsen, il podio di Joao Almeida all’ultima corsa rosa vinta da Roglic, il recente successo di Mikkel Bjerg nella cronometro del Criterium del Delfinato. Ormai indossano un’altra maglia, ma sono sempre ragazzi cresciuti con noi, sono ragazzi della Hagens Berman Axeon».
Lo ricordano spesso loro stessi nelle interviste che rilasciano, dimostrando una grande riconoscenza nei tuoi confronti. Il legame resta, con qualcuno è speciale.
«Sì, è l’aspetto più bello di questo lavoro. Tao Geoghegan Hart è uno di quelli con cui sono rimasto più in contatto e soprattutto ha un rapporto molto particolare con mia figlia Athina (che ha 18 anni e dal 2019 lotta contro una rara forma tumorale al ginocchio, la fibromatosi desmoide; Athina è la sorella minore di Axana, 22 anni, una delle nuotatrici universitarie più promettenti dell’Arizona, ndr). Nel 2020 mentre si stava giocando il Giro, ma nonostante fosse tanto impegnato, quasi ogni giorno le mandava dei bei video su whatsapp per sostenerla e infonderle coraggio. Ora lo considero più un amico che un mio ex corridore, ci sentiamo praticamente tutti i giorni, da quando è caduto al Giro sto cercando di essergli vicino».
Il ragazzo che più ti ha sorpreso negli anni?
«La parabola di ognuno è imprevedibile. Anche chi ha tanto talento, quando passa nel World Tour incontra per forza di cose delle difficoltà. Quello che forse ha avuto la crescita più lineare è Neilson Powless, che oggi in maglia EF sta dimostrando la sua grande classe. Quando era da noi non lo conosceva nessuno, ora è riconosciuto come un corridore di livello mondiale».
Quello che invece poteva dare di più?
«Ce ne sono tanti, ma non mi piace fare nomi. C’è chi si è presentato con grandi ambizioni e potenziale, ma quella del ciclista professionista non è vita per tutti. È un lavoro duro, in cui c’è bisogno anche di fortuna, basta una brutta caduta per compromettere una carriera».
Cosa ci vuole per diventare un buon professionista?
«La fortuna come detto aiuta e può incidere, ma prima di tutto ci vuole serietà, umiltà nell’ascoltare i compagni e i tecnici più esperti, voglia di imparare. Bisogna vivere da corridore 12 mesi all’anno e, soprattutto, provare piacere in quello che si fa, nonostante sia un mestiere esigente e faticoso come pochi. Il margine tra i migliori è così piccolo che ogni dettaglio fa la differenza».
Hai mai pensato di allestire anche un team development femminile?
«Sì, si stava concretizzando questa possibilità qualche anno fa ma poi è arrivata la pandemia e dopo il covid non c’erano più i soldi. Mi piacerebbe, ma ora realisticamente non è possibile. Vedremo l’evoluzione dell’economia e dello sport, ma non è facile trovare nuovi sponsor...».
Investire sui giovani non fa diventare ricchi.
«Da molti anni sostengo che squadre come la nostra dovrebbero ricevere una sorta di indennità di formazione da parte dell’UCI, perché non è facile far crescere dei ragazzi e portarli ad altissimo livello e i fondi si trovano con sempre maggiore difficoltà. Molti team importanti ci aiutano perché sanno che qui i giovani crescono bene e diamo loro la possibilità di correre ad alti livelli già da giovanissimi. La nostra è una scuola importante, dove ai corridori statunitensi, affianchiamo i giovani europei e li facciamo correre insieme. Ci servono aiuti, non possiamo essere lasciati soli. Se non investi sui giovani, il ciclismo non avrà futuro».
Tuo padre ti dà consigli?
«No, ma è un grande tifoso della squadra. Mi chiede come stanno i corridori e ci segue, però non si occupa di scouting né ha mai pensato di fare il procuratore».
Cosa pensi ogni volta che un giovane viene paragonato a lui?
«Succede da sempre, da quando ha smesso i giornalisti cercano un suo erede ma è impossibile che riescano a trovarlo (sorride, ndr). Lui è unico, come talento e mentalità. In più il ciclismo è cambiato. È come paragonare un calciatore di oggi a Pelè, anche se sei Messi o Ronaldo certi paragoni non hanno senso».
Quali sono i nomi più interessanti della nuova generazione?
«Il vincitore del Giro Next Gen Staune-Mittet nei 10 giorni di corsa ha dimostrato di essere il più forte di tutti, senza se e senza ma. Un altro nome su cui scommettere è senz’altro Alec Segaert, belga classe 2003, campione europeo a cronometro e vicecampione del mondo di specialità, ha vinto la prima tappa e vestito la prima maglia rosa di questa edizione. Sta crescendo con pazienza e intelligenza, non a caso ha disputato il Giro Baby anche se avrebbe già potuto fare il grande salto tra i big. Tra i nostri Jan Christen e il portoghese Antonio Morgado devono ancora maturare ma hanno sicuramente il potenziale per fare grandi cose in futuro. Detto questo, la differenza tra la categoria Under 23 e il World Tour è così grande che non si sa mai».
Qualche sorpresa potrebbe sbocciare anche a casa nostra?
«Certo! Ai tifosi italiani dico di tenere duro, sono convinto che nel giro di poco ci saranno molti corridori che emergeranno perché avete professionisti che vanno forte e che fanno sognare i giovani. Il buon esempio e l’ispirazione sono fondamentali, rappresentano il vero motore per il futuro».