Marco Frigo, l'elogio della pazienza

di Nicolò Vallone

Marco Frigo è una delle rivelazioni italiane del 106° Giro d’Italia. Non è l’unico atleta di casa nostra a essersi messo in mostra, ma i piazzamenti alla corsa rosa del classe 2000 della Israel Premier Tech, che nelle scorse due stagioni si è rotto polsi e clavicole (tra le varie fratture, pure lo scafoide co­me di recente Pogacar) e sta superando qualche difficoltà, anche psicologica, nell’affrontare le discese, sono stati forse i risultati più inattesi. Prestazioni che fanno sperare un’Italia ciclistica alla disperata ricerca del talento in grado di colmare il vuoto lasciato da Nibali & co. Nel 2023, do­po aver disputato San Juan, Faun Ar­deche e Drôme Classic, Coppi&Bartali e Tour of the Alps, Frigo ha indovinato le fughe della dodicesima e della quindicesima tappa, arrivando quinto a Ri­voli e soprattutto terzo a Bergamo nell’acclamazione popolare. Spe­ri­men­tando poi l’emozione di una trionfale “visita parenti” nella frazione numero 17 al passaggio da Bassano del Grappa e il brivido di un’altra fuga l’indomani vers­o Coi e Val di Zoldo valsa la sesta piazza.
Marco, quella frazione orobica in cui ti sei staccato per due volte e in entrambi i casi hai trovato la forza fisica e mentale di rientrare, in fondo è una metafora della tua vita ciclistica finora?
«Sicuramente. Il mio recente passato mi ha insegnato che non si molla mai e bisogna riuscire a crederci fino in fon­do senza spegnere la mente. Avevo buo­ne sensazioni e tanta voglia di provare a giocarmi la vittoria con grandi avversari come Brandon McNulty e Ben Healy, ho trovato nella testa il motivo giusto per non mollare, come del resto ho fatto negli ultimi anni».
Volendo trarre sempre del positivo anche dagli accadimenti negativi, quindi, le tue molteplici cadute e incidenti ti hanno aiutato a essere un corridore più forte...
«Così come nella vita ho dovuto pormi degli obiettivi nei momenti avversi, per ritornare non il più presto possibile ben­sì il meglio possibile, in una gara quando qualcosa va storto cerco di fo­calizzarmi su un obiettivo ben chiaro e non naufragare. Se hai ben chiaro cosa vuoi e sei motivato, puoi an­dare avanti e non mollare».
Ci sembra di poter condensare la tua vita ciclistica in una parola chiave: pazienza. Quella mostrata in gara nel ricucire e mo­strata fuori dalle corse per recuperare dagli infortuni, ma anche quella di fare il grande salto al momento giusto. Tu sei diventato campione d’Italia Under 23 già a 19 anni, in maglia Zalf, e dopo quel successo ti sei fatto altre tre stagioni nella categoria, caratterizzate da buoni risultati soprattutto in corse francesi come Tour de l’Avenir, Ronde de l’Isard, Circuit des Ardennes e Alpes Isère Tour. Nel ciclismo dei baby fenomeni, dalle velocità e dalle tempistiche sempre più accelerate, passare professionista a 23 anni dopo quattro an­ni di U23 può essere considerato quasi tardivo: dovremmo invece recuperare un po’ di saggezza, o appunto pazienza, se­con­do te?
«Quel tricolore U23 conquistato a Cor­sanico, in Toscana, appena passato dilettante, è stato un gran jolly per la mia carriera, ma allo stesso tempo la considero una gara come possono es­serlo tante altre che non hanno valenza di campionato italiano. Quella maglia l’ho vissuta con tranquillità, senza la pressione di dover salire per forza tra i prof. Sicuramente mi ha permesso di volare un po’ più in alto, perché mi ha aperto l’opportunità di trasferirmi in Olanda. Vero, sono uno degli ultimi della mia generazione a essere diventato professionista: lo considero un pregio, la maturità psicofisica e ciclistica con cui sono passato quest’anno non è paragonabile a quella che avrei avuto approdando tra i prof dopo quel titolo nazionale. Ma­gari adesso un giovane che vince il campionato italiano U23 e un paio di gare ottiene un contratto, ma per quella che è la mia storia penso che l’importanza di qualche anno da dilettante sia sottovalutata».
Dal 2020 corri in squadre straniere, in particolare nel biennio ’20-21 sei stato nella Seg Racing, la Continental che ha proiettato nel professionismo Fabio Ja­kob­sen e Thymen Arensman, ma anche i nostri Affini e Dainese, e altri nomi at­tualmente nel World Tour: senza mancare di rispetto alle Under 23 italiane, che anzi vanno sostenute, trovi che olandesi et similia abbiano qualcosa “in più” o co­munque di diverso?
«Non sarei così pessimista sulle strutture italiane, trovo che da noi ci si stia avvicinando ai modelli migliori. Alla Seg ho capito subito che da quelle parti si riesce ad avere un approccio più simile a quello che si troverà poi nel professionismo, con un calendario che intervalla classiche e corse a tappe ma che prevede pure periodi di venti giorni in cui si sta a casa e ci si allena. Un si­stema così ti induce a cambiare mentalità e preparazione, ti introduce a un rapporto quotidiano col tuo preparatore, insomma ti abitua già alla professionalità meticolosa in tutti gli aspetti. In Seg mi colpirono anche la cura dei materiali e il fatto di essere trattati esattamente come i “grandi”».
E cosa ci dici della Israel Academy, dove ti sei trasferito l’anno scorso e dalla quale sei stato “promosso” quest’anno?
«Ho trovato un ambiente perfetto per i giovani, ideale per confrontarsi, lavorare e divertirsi tutti insieme. Il fatto di essere il vivaio di un grande team è un valore aggiunto: abbiamo lavorato a stretto contatto con corridori e staff della prima squadra, questo ti aiuta ad avvertire meno il salto quando poi pas­si professionista. Anche perché, rispetto al biennio olandese, ho trovato una folta presenza di italiani e stranieri che parlano italiano».
Tra gli italiani con cui hai avuto a che fare, il direttore sportivo Claudio Cozzi (nel frattempo passato alla Tudor): quando mesi fa gli chiedemmo di farci tre nomi per il futuro, lui ci disse “Corbin Strong, Mason Hollyman, Marco Frigo”.
«Fa davvero piacere che uno come lui abbia detto questo, quando capitava di correre con lui ero contentissimo mi dispiace che abbia lasciato la squadra».
Immaginiamo che avrai conosciuto personalmente patron Sylvan Adams.
«Certamente, è sempre presente quando può. È venuto pure al Giro per seguirci nelle fasi decisive e pedalare con noi nel giorno di riposo. È veramente appassionato ed entusiasta ver­so il suo progetto e i suoi ragazzi».
Insieme a te, è passato dalla Academy al ProTeam anche Derek Gee: al Giro d’I­talia ha mostrato una gamba pazzesca, cosa ci dici di lui?
«Mi impressionò fin dal primo ritiro con la Continental per il gran motore: riesce a spingere sia in salita che in pianura, sia col sole che con la pioggia. Un grandissimo atleta e persona, uno con cui parli e discuti sempre volentieri, disponibile quanto basta in gara».
Parlando di compagni ben più esperti e di stranieri che parlano italiano, stai correndo pure al fianco di Simon Clarke.
«Sì, mi trovai bene con lui già al Giro dell’Appennino (dove purtroppo andai in­contro a uno dei miei infortuni) e con­fermo l’impressione avendo corso con lui al Giro d’Italia. Fin dalla prima settimana è stato il regista della squadra, è stato lui a darci una decisa im­pronta d’attacco con quella fuga a Na­poli. Da lì abbiamo iniziato ad aiutarlo e ad aiutarci re­ciprocamente, e soprattutto a crederci. Ci è mancato pochissimo per portare a casa una vittoria, ma ho vissuto molto serenamente questo mio primo grande giro e porto a casa belle sensazioni».
In effetti, da quando Clarke ha acceso l’interruttore è cominciato il vostro Giro all’attacco: a partire dalla Terni-Fos­som­brone, col secondo posto di Gee dietro a Ben Healy. E lì Domenico Poz­zovivo era ancora in gara...
«Esatto, la nostra vocazione offensiva a questo Giro possiamo dire che è nata a Napoli. Chiaro, fino allo sfortunato ritiro causa covid del capitano avevamo un occhio di riguardo per la sua classifica e volevamo curare entrambi i fronti. La mancanza di Domenico dalla se­­conda settimana ci ha resi totalmente offensivi e abbiamo fatto belle cose».
Vi sentite l’equivalente di quello che è sta­ta l’Alpecin negli ultimi anni?
«No, siamo una Professional che ha la pos­sibilità di fare un calendario di alto livello e ha la capacità di prepararsi a dovere».
Parentesi: qual è il tuo punto di vista sul­la tappa tagliata di Crans Montana?
«Noi ciclisti siamo quelli che hanno sofferto di più per quanto accaduto. Col senno di poi è facile parlare: l’organizzazione ci aveva chiesto di muoverci con anticipo, noi la sera prima abbiamo guardato le previsioni meteo e su quelle ci siamo basati per esprimere le scelte che tutti sapete. A parer mio l’errore è stato fatto poi al mattino, colpa sia di noi corridori che degli organizzatori. Comunque è stato un Giro duro, abbiamo preso tanta acqua e ricordiamo che le condizioni di salute generali in gruppo non erano il massimo».
A proposito di salute difficile, torniamo a Pozzovivo: quanto ti ha fatto piacere il suo arrivo in squadra e quanto ti è dispiaciuto il suo ritiro dal Giro?
«Per il suo forfait sono stato tanto di­spiaciuto quanto sono stato felice alla notizia della sua firma per la Israel Premier Tech. Non vedevo l’ora di conoscerlo e rubargli tanti segreti e nei dieci giorni del Giro in cui lui è stato con noi ho trovato una persona fantastica, pienamente disposta a condividere e trasmettere la sua esperienza».
Ti senti più Pozzovivo o più Clarke?
«Mi sento Marco Frigo, un corridore longilineo che può dire la sua in salita e può esprimere bei valori in pianura».
Variamo la domanda: ti senti più da corse a tappe o da classiche?
«Mi affascinano le gare a tappe e in cuor mio spero d’imprimere questa net­ta direzione alla mia carriera: se do­vrò limitarmi a essere un gregario o un cacciatore di tappe o se invece potrò essere qualcosa di più, sarà il futuro a dircelo. Intanto sono lieto di poter dire che in Israel Premier Tech stanno assecondando queste mie caratteristiche e volontà. E pensare che il mio idolo assoluto è uno che ha fatto incetta di classiche...».
Di chi si tratta?
«Fabian Cancellara, che nei miei primi anni nel ciclismo vinceva un sacco: ricordo i suoi Fian­dre e le sue Roubaix, e in generale ero rapito dalla sua classe».
Ecco, ripartiamo dal passato: quando, come e perché nasce la tua passione per la bici?
«Me l’ha trasmessa soprattutto mio pa­pà Fabio, che era stato corridore di­let­tante, ma tengo a precisare che non mi ha mai imposto nulla. Sabato pomeriggio e domenica mattina mi portava spes­so fuori in bici quando avevo cinque o sei anni e mi piaceva molto. Mia mamma Marta, ci teneva a farmi fare nuoto, così in primis feci dei corsi e imparai i vari stili. Però nel 2008 provai la bici da corsa alla Città dello Sport, una manifestazione a Bassano del Grappa dove si fanno praticare diverse discipline ai bambini, e lì decisi che non sarei più sceso di sella».
Di padre in figlio, insomma: ce l’avevi nel dna!
«Riguarda tutta la famiglia: a casa si parla quasi esclusivamente di ciclismo, compresi i miei fratelli Dario (solo omonimo dell’ex prof, ndr) e Davide. E quest’ultimo, il più piccolo, corre da Allievo. Come amo spesso dire, loro due ne sanno anche più di me».
Com’è stata la tua trafila giovanile?
«Ho iniziato da G3 nel Veloce Club Bassano, lì ho fatto Giovanissimi, Esordienti e Allievi. I due anni Junio­res li ho fatti nel team friulano Danieli, dove ho potuto partecipare a gare internazionali e ho provato l’emozione di vestire la maglia della Nazionale ai Mondiali di Innsbruck, quelli vinti da Evenepoel. Dopodiché, nel 2019, ho iniziato il quadriennio da Under 23 di cui parlavamo prima. In Zalf Euro­mo­bil Fior ho vinto il tricolore di categoria che mi ha aperto le porte della Seg Racing. Non sono mai stato un super vincente e non sono mai stato considerato un astro nascente, ma ho cercato sempre di far bene col giusto mix di impegno, passione e divertimento. Sono riuscito a farmi strada e spero di continuare così».
La tua carriera può essere considerata un bel messaggio per tanti ragazzi che condividono la tua passione e il tuo sogno, ma vengono schiacciati dalle pressioni e talvolta decidono di ritirarsi anzitempo?
«Lieto che la mia storia possa essere di buon esempio. Posso dire che il mio sogno si è gradualmente tramutato in un obiettivo sempre più raggiungibile. Ok serve andare forte, servono le vittorie, servono i piazzamenti, ma non credo siano così indispensabili per po­ter continuare nel mondo ciclistico e raggiungere il professionismo. Pur­trop­po, è vero, spesso non ci si rende conto della pressione che il giovane atleta può provare nell’allenarsi e nel dover ricercare per forza la vittoria ogni domenica, anziché poter cercare semplicemente le buone sensazioni di una gare e di un allenamento. Forse andrebbe rivisto l’approccio alla preparazione e a ciò che realmente conta nella crescita e nella maturazione di un fisico e di una persona.»
Per arrivare a questi livelli bisogna avere avere le persone giuste a guidarti nel cammino: chi sono state le più importanti nel tuo percorso?
«Alla base ci sono mamma, papà e i miei due fratelli. Nelle prime categorie ci sono stati Sandro Zilio, Luca Crema­sco e Mirco Fachinat, oltre ai preziosi in­segnamenti di Cipriano Chemello ed Ernesto Toniolo. Successivamente, in Danieli, ho trovato Marco Floreani che mi ha fatto diventare un corridore a tutti gli effetti. Ringrazio tanto i commissari tecnici Rino De Candido (Juniores) e Marino Amadori (Under 23) che mi hanno fatto fare importantissime esperienze in azzurro. Come non menzionare, infine, Bart Van Haa­ren, che mi chiamò alla Seg Racing e ha sempre creduto in me, tanto da essere tuttora il mio procuratore?».
Quando è entrata in scena la Israel?
«Nel 2021, durante la seconda annata in Seg Racing: tribolata a dir poco, con la frattura della clavicola prima del Giro Giovani. Per fortuna il ct Ama­do­ri mi diede fiducia e mi portò al Tour de l’Avenir, dove arrivai undicesimo e si presentò subito la squadra israeliana a offrirmi il contratto.»
Cancellara a parte, tra i contemporanei hai degli idoli?
«Ho diversi colleghi a cui mi ispiro parecchio, ma devo ammettere che il mio idolo è... l’intero gruppo dei professionisti, li stimo tutti perché so quanto sia faticosa la vita da ciclista».
E tra questi numerosi “idoli” c’è qualcuno con cui sei particolarmente amico?
«Mi viene in mente una persona che ha vent’anni più di me e da corridore ha vinto tappe al Tour e alla Vuelta: è Ru­ben Plaza, il mio preparatore, che mi supporta e mi sostiene alla grande. Par­lando di colleghi, ce ne sono tanti nelle mie zone con cui è più facile scambiare qualche parola e momento insieme, come Filippo Zana e Alberto Dainese. Veneti a parte, pure l’altro “olandese” Edoardo Affini.»
Ultimo ma non meno importante, rapporto tra studi e ciclismo?
«Scuole superiori filate lisce, mi sono diplomato bene in Elettrotecnica. Poi sono andato all’estero e ho portato avanti la carriera ciclistica quindi non è stato semplice proseguire con l’università, ma sono fermamente deciso a laurearmi e avere un piano B nella vita: sto studiando ingegneria industriale, inizialmente ero iscritto a Padova mentre ora sto seguendo un’università on line. È una porta che voglio tenermi aperta e la mia famiglia mi sta aiutando a farlo.»
Anche qui, caro Marco, pazienza e amore per ciò che si fa. Un esempio.

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