di Pier Augusto Stagi
Se non fosse stato al Giro d’Italia, Alberto Dainese non avrebbe di certo vinto a Caorle. Non sarebbe neanche arrivato a Roma. A Bergamo, in quella stupenda tappa resa ancor più bella dal tepore della primavera, dal calore del pubblico e da un agonismo di altissimo livello, Alberto sarebbe chiaramente sceso di bicicletta per tornarsene a casa.
Non era la tappa ideale per stare male, per avere una crisi gastroenterica che l’ha costretto più volte a fermarsi e a ripartire, anche quando il fisico reclamava attenzioni. Quando i segnali erano chiari: fermati, così non va! Niente da fare, i ciclisti hanno la scorza dura e Alberto è di quelli che si piegano ma non si spezzano.
«È andata proprio così - mi racconta qualche giorno dopo a bocce ferme -. Se non fosse stato il Giro d’Italia, mi sarei ritirato. Mi ero ammalato due giorni prima del secondo giorno di riposo. Influenza intestinale, non vi dico. Domenica mattina, verso Bergamo, ho passato la giornata più brutta della carriera. Mi sarò fermato dieci volte. Sono arrivato ultimo, disidratato sfinito e a pezzi: solo. Ma non volevo mollare, volevo a tutti i costi proseguire. I direttori mi ripetevano: Alberto, ma sei sicuro? Certo che sono sicuro! Per fermarsi c’è sempre tempo, ma io ci provo. Fino alla fine, fino allo sfinimento. Se penso a quei giorni sto ancora male…».
Passiamo a cose più piacevoli, raccontaci della tua rinascita...
«Nel finale della tappa di Caorle compagni hanno messo una pezza: ho preso tutte le curve secondo o terzo, anche se pensavo di essere secondo al traguardo! Questa era la tappa di casa e dentro di me volevo lasciare il segno, anche se qualche giorno prima ero stato lì lì per mollare. Caorle è vicino a Jesolo, dove andavo al mare. Avevo tanti amici al traguardo che mi aspettavano e io avrei voluto fare qualcosa di importante per me, per la squadra e anche per loro… È stato uno sprint infinito. Sono stati istanti infiniti. Avrò vinto? Secondo? Primo? Quando mi hanno detto che ce l’avevo fatta ho cominciato a gridare come un pazzo “Sììììììììììììììì”. Mi hanno detto che tra me e Milan la distanza ufficiale rilevata dai cronometristi è stata di 6,7 millesimi. Niente, che per me è tutto».
Un secondo acuto, dopo quello di un anno fa a Reggio Emilia, sempre al Giro d’Italia. «Ci voleva proprio, mi serviva anche per la testa e l’autostima. Forse mi hanno lasciato allo scoperto troppo presto, ma io non ho commesso l’errore di partire lungo. Ho aspettato il momento giusto e per un soffio ho vinto. E ancora adesso, a distanza di tempo, quasi non ci credo. Per giorni non sono riuscito né a dormire né a mangiare. E fino a martedì avevo lo stomaco sottosopra. Ma il Giro va onorato fino alla fine».
Il segreto?
«La testa. Non mollare mai. Crederci sempre, anche quando tutti gli indicatori ti dicono che è finita. Ho avuto la fortuna di correre anche alla Zalf da dilettante, alcune strade di quella tappa le conoscevo a memoria. Poi il capolavoro l’ho fatto nel finale: mi sono “schiacciato” sul manubrio per essere il più aerodinamico possibile. E ho dato tutto, proprio tutto».
Però tra Reggio Emilia e Caorle nemmeno una vittoria: come si spiega questo blocco?
«Non ho avuto molta fortuna. Ho trascorso dodici mesi molto difficili per vari motivi. Questa è stata per me un po’ una rivincita. A ottobre avevo fatto parecchia riabilitazione per problemi a un ginocchio. Voglio che questa vittoria rappresenti un nuovo inizio».
Alberto ricorda e racconta, anche di quando giocava a basket, sport che segue ancora con passione.
«È uno sport che adoro e ancora oggi seguo - ci racconta -. Tifo per New York e da bimbetto mi sarebbe piaciuto diventare un campione della pallacanestro, ma sono cresciuto troppo poco e così ho scelto il ciclismo, che oggi mi appaga, che oggi è la mia vita. Un anno fa ho avuto la fortuna di vincere a Reggio Emilia, dove aveva vissuto l’indimenticabile Kobe Bryant (il Comune ha dedicato una piazza a lui e alla figlia Gianna, ndr). Per me era un idolo. Ma se è per questo a Reggio ha giocato anche Tomas Van der Spiegel, oggi numero uno della Ronde, del Giro delle Fiandre: nulla succede per caso…».
Alberto ha due sorelle ed è il primo ciclista della famiglia: «Da Under 23, nel 2019, ho vinto il campionato europeo. Ma le prime due stagioni da professionista sono state parecchio difficili - spiega -. Non mi veniva più naturale niente, mi ero scoraggiato e avevo perso la fiducia nelle mie possibilità. Ora però queste vittorie mi hanno dato energia e mi hanno reso più consapevole dei miei mezzi, di quello che posso fare, anche se non so francamente che tipo di corridore posso essere, che tipo di corse possa vincere. Il ciclismo l’ho scoperto quando restavo dai nonni nel mese di maggio, dopo la scuola, e al pomeriggio si vedeva sempre il Giro d’Italia alla televisione: per me solo l’idea di correrlo era un sogno. Ora nei sogni di tanti bambini, ci sono anch’io…».