Non ho un video, non ho un selfie
di Gian Paolo Ormezzano
Finito il Giro, avanti con il Tour. Per me soltanto/addirittura un andare indietro quanto a reminiscenze. Ultimo Giro e ultimo Tour da inviato quando era ancora l’altro secolo. Ma che dico secolo?! Millennio, l’altro millennio. Tengo sedute oniriche sempre più frequenti con quel ciclismo mio, grazie anche al secondo orrendo covid che mi ha quasi annichilito fisicamente ma mi ha ben gonfiato la memoria di ricordi. E fra i ricordi quelli del lavoro spazzano via quelli del resto tutto, nel lavoro quelli di ciclismo asfaltano (pare che adesso si debba dire così per essere cool, e pazienza se non si sa bene cosa vuol dire essere cool) quelli del resto dello sport. Come mi disse un giorno - già scritto forse, ma repetita juvant: juvant attenzione, non juve - a Caracas, Venezuela, Mondiali anno 1977 (vinse Moser), Claudio Colombo del Corriere della Sera, “un allungo di Simone Fraccaro vale una intera giornata di campionato di calcio”. Approvai, si capisce, e Fraccaro, bravo gregario azzurro, ci sentì e probabilmente decise che certi pazzi non dovevano seguire quella cosa seria che sono le corse ciclistiche.
Ho già intasato tuttoBICI di miei ricordi storici e futili, cosmici e comici, legati al Giro, al Tour e ai loro parenti grandi e piccini, adesso qui voglio cercarne di speciali, legati al ciclismo solo di striscio, per caso, eppure stampati nella memoria e ricorrenti.
Come di quando salvai la vita a Mario Fossati, il migliore di tutti noi scrivani di biciclette, a Parigi, anno 1964, bloccandolo sul marciapiede mentre stava arrivandogli addosso un bus veloce, immane, cattivo. Un passo ancora e sarebbe stato travolto e probabilissimamente ucciso, lui semplicemente mi guardò e mi disse: “Ti devo una vita, cercheremo di aggiustarci nei prossimi anni”. Me lo ricordò più volte, concordammo in pieno sul fatto che io avevo agito senza nessun empito eroico, solo per automatismo, chiunque avrebbe agito come me e io avrei bloccato chiunque, anche un fan della Juventus.
Ricordo che poi quello stesso giorno andammo da Gigi che non era un uomo ma una donna-donnissima, diciamo pure un’etèra, alla quale tanto Tour faceva visita la vigilia della conclusione, quando avevamo già raggiunto Parigi dove si aspettavano i corridori per l’ultimo show.
Gigi di rue Saint Denis, tempio del sesso a due passi da rue d’Aboukir tempio della moda a buon mercato all’ingrosso per i proprietari italiani di boutiques che si rifornivano.
Gigi era lì per il Tour, per noi del Tour, anche per francesi parigini di Parigi, si concedeva una pausa e ci chiedeva tutto della corsa, approfittando di noi per dirimersi alcuni quesiti interiori su Bobet, Anquetil, Geminiani, persino quell’italiano Gimondi che stava vincendo il Tour dell’Avvenire per dilettanti.
Ricordo che in una notte buia e tempestosa, insieme con i colleghi Gianni Melidoni e Gianni Ranieri (ho avuto una vita di lavoro piena di grandi Gianni nostrani, dico Brera e Mura, Clerici e Romeo, Ranieri e Melidoni…, basta che mi strofini un poco la memoria e saltano tutti fuori, bravi e cari), a Bénodet sul mare del nord catturammo un pacifico enorme cane nero e lo introducemmo (la porta era aperta, quasi un invito al malaffare) nella stanza dell’alberguccio che ci ospitava, era tutto buio, l’autista mio di Tuttosport dormiva già da tempo, avvertì la presenza della bestiona ansimante ed emerse di botto dal letto, sbattè la testa sul soffitto (era una mansarda) assai basso, svenne e ripiombò nel sonno, al mattino gli chiedemmo come si era fatto quel bernoccolo sulla testa e lui non lo sapeva proprio.
Tante altre cose particolari potrei ricordare, omettendo quelle a luci rosse per riguardo non tanto di lettori che presumo ormai scafati, quanto del ciclismo che non merita certi arrossamenti magari ipocriti. Adesso e qui cerco, in nome di un impegno di partecipazione, di dare l’idea di come era bello seguire le corse e goderne anche i dintorni e i contorni. Ora si sta a casa sommersi e ammorbati di televisione di grana grossa ancorché tecnologicamente importante, al massimo si sta all’arrivo in sala stampa e si subiscono immagini forzate e storie di eccessiva qualità elettronica, in attesa che l’intelligenza artificiale ci scriva pure l’articolo. Intanto cerco di conservare e partecipare i ricordi, che altro posso fare?, e pazienza se Mario Fossati per anni e anni ha giocato sul fatto di dovere una vita al cretino che fui, che sono e che temo ancora per qualche poco sarò. E c’è nella memoria di quel salvataggio pure spazio per l’incubo di non essere creduto, senza manco un duro filmato, un esile selfie.