Eravamo diversi, sapevamo ridere
di Gian Paolo Ormezzano
Ma davvero ci divertivamo così tanto, noi giornalisti, a seguire i grandi Giri del ciclismo, su tutti si capisce quelli d’Italia e di Francia? Davvero davvero davvero. Ci divertivamo anzi molto di più di quanto scrivessimo direttamente, esplicitamente nel nostri reportage, o facessimo in qualche modo capire dai nostri scritti, o addirittura fosse capito dai lettori e dai colleghi residui austeri, al di là ed al di sopra delle nostre intenzioni.
Ci divertivamo tanto e con poco, molto poco: gavettoni e dintorni, insomma, nel senso anche che allora la voglia di vivere e la fantasia erano merce comune, di larga fruizione senza troppi problemi. Né c’era una strumentazione tecnologica angelica & diabolica a spingerci, indirizzarci, guidarci, sollecitarci, aiutarci, vessarci. Sto parlando sia chiaro del secolo scorso. Se proprio si vuole trovare uno spartiacque fra il prima e il dopo, il divertimento e il non divertimento, si deve infatti andare indietro sino al 1999, l’anno di Marco Pantani venne bloccato al Giro dall’antidoping in quel di Madonna di Campiglio, lui che l’anno prima aveva vinto il Tour de France subito dopo avere vinto il Giro d’Italia, come nella grande storia del grande ciclismo è sino ad ora occorso soltanto a sette campioni (non Armstrong, per me un’ingiustizia: bestemmio?). Fu l’inizio ufficiale di una greve storia anche chimica, una sorta di perdita acclarata di tanta innocenza. Un caso o forse no che quello sia stato l’ultimo dei miei ventinove Giri, a partire da quarant’anni prima per Tuttosport, e che si fosse trattato sin lì di un Giro più per la Rai che per la stampa scritta (animavo, magari sin troppo, una sorta di cabaret agli arrivi, un processo buffo alla tappa, con Claudio Ferretti e Gianni Ippoliti, e però il dramma del Pirata mi “convocò” a scriverne eccome per La Stampa).
Ci divertivamo, e pazienza se grossolanamente, perché eravamo in tanti al seguito, nessuna tivù carceriera a bloccarci a casa, la caciara in sala stampa come in corso di tappa era spesso automatica, una ressa talora vicina alla rissa “recitata”. E poi perché per tutta la tappa ci respirava addosso, intrigante e soffocante e sapiente e dopante, gente ciclofila e ciclomane assai diversa da quella attuale: ma attenzione, devo resistere al gioco facile dell’«ai miei tempi», devo cercare di divertire dicendo soltanto di quanto ci divertivamo.
Per esempio non c’era giorno in cui non ci si arrovellasse per uno scherzo nuovo, e meglio se ad un nuovo arrivato. Il finto litigio al villaggio di partenza, il finto scoop lasciato intendere a colleghi più giovani nuovi arrivati, smaniosi curiosi vogliosi di qualcosa di speciale. Un teatrino costante e anche itinerante: ricordo una tappa del Giro in Alto Adige in cui ci vestimmo - dico di un plotoncino di giornalisti – da contadini sudtirolesi il giorno di festa, fustagno e bretellacce, e accogliemmo con canti in tedesco il passaggio dell’auto di un arcigno Vincenzo Torriani che stentò a riconoscerci. O al Tour de France quando inventavamo cose turche nelle tribù degli italiani, e ai colleghi francesi, così innamorati e fieri della loro corsa da non osar pensare che la si potesse dissacrare anche soltanto di striscio, lasciavamo intendere l’esistenza di complotti, di congiure da casa Borgia all’interno di certe nostre squadre.
Per divertirci meglio agivamo in bande: noi scherzomani contro i grandi suiveurs paludati nella loro stessa anzianità, quelli che avevano cantato non solo i Bartali e i Coppi ma anche i Bottecchia. Noi arrivati alla corsa più o meno dalla seconda metà del secolo in avanti giocavamo anche al perfido gioco di far parlare loro, gli anziani, i mostri sacri, simulando grande interesse per le loro memorie vellicate spesso evocazioni di colossali cene, quasi che ormai non si potesse più mangiare così gargantuescamente, da superstiti a guerre e penurie…
Ci divertivamo con gli artisti al seguito, quelli dello spettacolo serale in piazza, al seguito del Tour anche Dalida e Gilbert Bécaud, due divinità, in Italia c’erano cantanti bravi e comici molto nostri, su tutti Tognazzi e Vianello. Loro, i comici professionisti, ci prendevano sul serio, nel senso che gradivano la nostra compagnia, o forse recitavano infinitamente meglio di noi dilettanti.
Si partiva come per un colossale viaggio organizzato, in quel posto lì si va a mangiare lì, menu prescritto in anticipo, in quel paese si gioca la partita di calcio fra giornalisti e meccanici, dopodomani si approfitta delle Alpi, dei Pirenei per far fare una minigara in salita di corsa alle automobili della nostra vasta scuderia. E poi c’era l’ultima tappa e non la si seguiva mai, ci si recava all’arrivo la sera prima e si confidava nella incipiente televisione, sennò si lavorava di fantasia, tanto non accadeva quasi nulla. Ricordo memorabili sabati di luglio a Parigi, raggiunta in anticipo sul Tour, nei quartieri a luci rosse dove le etère aspettavano quelli del Tour ma per discutere di Anquetil, non di amore mercenario tariffato.
Grazie di avere letto sin qui. Forse allora era come adesso, ero io diverso, eravamo noi diversi, magari lo direbbe bene un algoritmo. Uffa.