Il signore di mezza età
di Gian Paolo Ormezzano
Il supplemento del sabato a La Repubblica si intitola Robinson (quello dell’isola che c’è o forse non c’è, con il suo Venerdì) e tratta di libri, recensioni eccetera, ma anche di arti varie, teatro e pittura, cinema e poesia, scultura e danza, e poi personaggi personaggi personaggi che intervistati lanciano sempre interessanti segnali intellettuali. L’ultimo numero di marzo dedica la paginona 21 a Marcello Marchesi, classe 1912, che diventò popolarissimo con la sua trasmissione televisiva “Il signore di mezza età” (l’altra mezza non si sa, canticchiava) ma che fu tante persone raggrumate in uno straordinario essere multipolivalente. Fu il creatore aggressivo di formidabili slogan pubblicitari, il compositore raffinato di aforismi, epigrammi eccetera, il battutista forte e fine per iscritto, l’autore di tanti libri intelligenti e intanto divertenti, mica facile, il protagonista di tante performances teatrali, l’autore e se del caso anche l’interprete di copioni sempre di successo vero (film, radiotelevisione, teatro specie leggero, rivista eccetera), lo sceneggiatore e talora persino il regista di film importantissimi, con tanto Totò. Milanese trasferitosi presto a Roma e poi tornato a Milano, infanzia povera e difficile, due mogli, tanti amici importanti e un amico giornalista sportivo non importante, un giornalista sportivo ossessivamente rampante.
Perché dico di lui e di me? Me lo presentò Leo Chiosso, il grande paroliere di Fred Buscaglione e anche l’inventore di tanto personaggio-Buscaglione. Conobbi Leo che già viaggiava sui cinquanta e quasi subito decidemmo di essere fratelli separati alla nascita: e si consideri che lui era juventino, dunque al mio opposto pallonaro. Anno 1964, ero a Tokyo per la mia quarta Olimpiade dopo Squaw Valley, Roma e Innsbruck, scrivevo per Tuttosport anche una sorta di taccuino giornaliero contenente sui Giochi giapponesi battute, appunti di colore, cosucce, magari extrasportive magari.
Mi scappò questo diciamo epigramma, intitolato all’invidia, sul mondo del canottaggio: “Al 4 senza non far sapere – che il 4 con ha il timoniere”: Ritengo si tratti della cosa più bella e leggera che io sia mai riuscito a produrre: forse l’unica cosa valida in centinaia di milioni di pestaggi sui tasti delle macchine da scrittura.
Leo lo lesse e lo fece leggere al suo amico e compare di tanti lavori (commedie e canzoni, anche Mina e Dorelli tanto per far nomi, e insomma tutto quel mondo), Marchesi mi scrisse a Tokyo chiedendomi di cercarlo al ritorno: ci trovammo subito bene a lavorare insieme sia pure a spizzichi, gli diedi una mano a creare anche slogan pubblicitari, ero affascinato dalla sua bravura a giocare con le parole smontandole e rimontandole, imparavo molto, qualcosina gli restituivo e lui un giorno mi disse: “Vorrei che tu ti spostassi da Torino a Milano per lavorare tanto insieme, guadagneresti bene, ma il fatto è che tu adori il tuo fare giornalismo, me ne parli sempre, e io ti invidio i tuoi viaggi per il mondo a raccontare lo sport”.
Passammo insieme nella sua casa di Milano un Capodanno, mi ringraziò per avergli nell’occasione spiegato la differenza fra agnolotto e raviolo. E poi ciao ciao, è stato bello ma è finito. Leo intanto si spostava a Roma, dove Buscaglione era morto in un incidente d’auto, scriveva per la tivù, Laura Storm la detective e anche Canzonissima con Dario Fo.
Intanto a Milano Marchesi scopriva che una donna alla quale voleva bene era una sacerdotessa del sadomaso, lo seppi da Leo, al lunedì la tipa fustigava geometri brianzoli al martedì architetti comaschi, il signore di mezza età cambiò un bel po’ di vita, ebbe altri amori e un bambino di fronte al quale lui morì, schiantandosi (1978) contro una roccia in un tuffo nel mare sardo.
Cosa c’entra tutto ciò con il mio consueto articolo dove parlo di ciclismo? C’entra eccome. Marcello Marchesi mi usò affettuosamente anche per sapere tanto dello sport, su cui non esercitò mai nessuna delle sue comunque sempre cattivelle acrobazie verbali forse anche perché io glielo presentai come una religione della mia vita ma anche della vita di milioni di uomini. Più gli dicevo cose, più mi chiedeva di dirgliene altre. Il signore di mezza età era onnivoro nel senso che voleva sapere tutto di tutto lo sport, però conveniva con me sulle virtù preclare del ciclismo e sulle fortune del giornalista per tanti giorni all’anno incapsulato in un’auto a seguire i corridori. Tutto del ciclismo che sapevo glielo versavo addosso, impazzavano gli anni Sessanta, Gimondi vinceva il Tour, Marcello sembrava sempre che volesse scusarsi con me perché aveva scritto poco o nulla su Bartali, su Coppi, sui loro succedanei. Invano cercai di portarlo anche sul calcio del mio Toro, confesso un mio fallimento. E omaggio il più grande giocoliere della lingua italiana mai esistito.