La selezione del Tour
di Gian Paolo Ormezzano
Siccome il giornalismo sportivo di una volta non c’è più, siccome all’andare-vedere-raccontare è succeduto il sedersi-teleguardare-subire, penso sia il momento di giocare al gioco, persino più divertente che stupido, delle graduatorie, come si fa per Sanremo, il governo, il terremoto, il sesso, i detersivi, le pizze, gli amori. Nel senso di porsi le domande più ovvie, spesso più cretine, ma inevitabili: quale per me è stato, in un passato ormai irripetibile, il tipo di servizio giornalistico sportivo più divertente? o più interessante? o più duro? E di fare le classifiche.
Sulla scorta dei miei settant’anni di giornalismo il più spesso itinerante, non ho dubbi e accedo anzi ad una risposta quasi dogmatica. Nel senso che il servizio più divertente e intanto più interessante e quasi sempre più duro per me è stato senza dubbio quello ciclistico, soprattutto delle corse a tappe, e questo anche se l’eventuale magia del paesaggio continuamente cangiante ha spesso ceduto alla paura di un incidente automobilciclistico, alla necessità di scrivere scomodissimamente anche in corsa, anche in curva con la “olivettina” traballante sulle ginocchia, al sapersi attesi in sala stampa da linee telefoniche in linea di massima ostili, al non mangiare in viaggio e quindi avere fame o al mangiare e quindi avere mal di pancia in caso di ristorante, conati di vomito in caso di panini consumati in auto. Nelle prove a tappe anche il non sapere se il posto dove dormire avrebbe propiziato il buon sonno o inflitto i cattivi sogni, nelle prove in linea il dovere, già dalla vigilia o comunque dal via, programmare il ritorno a casa ovviamente appena possibile, quindi altri chilometri di spostamento in nottata o, il mattino dopo, partenza assai presto onde rientrare in tempo per poi spendere tante belle ore in redazione.
Tutto il resto al confronto è guano: persino i sacri Giochi olimpici, con il villaggio degli atleti sempre più bunkerizzato,con quel sedere tutti in tribuna stampa a vedere tutti le stesse cose, magari sbirciando il televisorino di servizio e trascurando le immagini dal vivo, e a scambiare con i colleghi freddure, memorie, sentenze, pareri, giudizi, cretinate, ironie. Per non dire delle trasferte calcistiche: si arriva in una città, in caso di coppe all’estero con l’aereo magari della squadra, ma loro, i giocatori divinizzati, in prima classe, noi giornalistacci in classe turistica. Albergo si capisce diverso, intruppamento da gregge di scrivani per andare tutti insieme nello stesso torpedone all’allenamento e poi alla partita, tutti sigillati in tribuna a fare in fretta a scrivere e trasmettere l’articolo perché c’è da prendere lo stesso aereo e tornare in Italia e magari a casa nella notte più fonda. E se la trasferta è di campionato nazionale, treno o anche aereo da prendere speculando sui minuti, rientri in ore fasulle per la pratica del vivere decente, e magari il masochismo narcisistico di aspettare l’alba al giornale onde avere direttamente dalla rotativa il primo giornale fresco, con il tuo articolo e il tuo nome&cognome in bella evidenza.
Sorvolo l’ovvio, la banalizzazione dei servizi su altro sport, atletica e nuoto, sci e basket, automobilismo e volley, ben che vada seduti davanti ad un televisore. E lo stesso Giro d’Italia per me ha registrato sempre la colpa di cercare di farsi comodo per i giornalisti, con sale stampa troppo belle, accoglienti, attrezzate e invitanti e tanto video da seduti, dopo tagli del percorso di tappa eseguiti grazie a provvide (?) autostrade.
Se mi chiedono (in verità non so perché dovrebbero chiedermelo, trattasti di finzione letteraria, pardon e amen) quale servizio classico preferirei rifare, dico quello della mia epoca sul Tour de France. Ci sono (c’erano, ma so che persistono) situazioni forti di scomodità, i giornalisti non sono coccolati, il servizio è prima di tutto un servire al grande mito sportivo, si segue anzi si precede la corsa e bisogna stare agli ordini. Si lavora(va) duro, anche di gomiti nell’approccio ai corridori appena arrivati, per la conquista di una frase, un gesto. C’era una selezione, evviva.