di Nicolò Vallone
I Mondiali su pista parigini, prodromo dell’Olimpiade 2024, hanno scolpito nella pietra, anzi nel parquet, un importante responso azzurro: nell’inseguimento, a ruota di Filippo Ganna, c’è un marcantonio friulano di 22 anni dal nome che già promette internazionalità, Jonathan Milan.
Il nostro scambio di battute con lui “a bocce ferme” è serrato e veloce, come i suoi scatti in velodromo e i suoi spunti su asfalto, ma non disdegna momenti di riflessione più ampia.
Abbiamo parlato con Milan nella settimana successiva al doppio argento (squadre e individuale) ottenuto con la maglia azzurra a Saint-Quentin-en-Yvelines e tre settimane dopo i primi due successi su strada, alla CroRace, dove a fine settembre si era aggiudicato la classifica a punti.
Cosa provi, così giovane, a essere al secondo anno nel World Tour e al secondo posto della pista a livello globale, con già al collo dall’anno scorso l’oro olimpico in quartetto e quello europeo individuale?
«Sensazioni molto belle, che ripagano di tutti gli sforzi e i sacrifici. È fondamentale essere consapevoli dell’entità dei risultati e rimanere se stessi. Come squadra abbiamo posto buone basi e sento che possiamo ancora migliorare».
Quando sei arrivato a dover correre la finale contro Ganna, cosa ti sei detto e cosa vi siete detti?
«Mi son detto che sinceramente avrei dato tutto, volevo cercare di portarmela a casa questa maglia iridata: ho dato il massimo, forse ho sbagliato qualcosa in partenza e nei primi giri e a quel punto contro Pippo c’è ben poco da fare. Prima di partire ci siamo abbracciati e dati un “in bocca al lupo” reciproco. Consapevoli, come giusto che sia tra corridori che disputano una finale mondiale, che ce la saremmo giocata fino all’ultimo».
Ci descrivi l’atmosfera che si respira nel gruppo azzurro?
«Quello che percepite voi all’esterno corrisponde alla realtà dall’interno: l’armonia che mostriamo è ciò che ci anima, siamo belli coesi e questo contribuisce a non farci sentire la pressione della gara. Il che è di vitale importanza: non saper gestire l’ansia può diventare un problema. Noi azzurri ridiamo e scherziamo sempre, ma poi quando c’è da tornar seri si fanno le cose bene: c’è una sorta di legge non scritta, che appena scatta l’ora precedente alla gara si entra in modalità race. Ecco uno dei nostri segreti».
Differenze tra Olimpiade e Mondiale?
«I Giochi sono la manifestazione sportiva più importante e che dà piu lustro, e personalmente a Tokyo arrivai piuttosto teso. Ai Mondiali parigini, a un anno di distanza, mi sono reso conto di gestire meglio questa tensione».
E cosa provi quando sei raccolto nella tipica posizione, sulla tipica bici, con il tipico equipaggiamento da pista, con davanti quell’ovale da macinare nel più breve tempo possibile?
«Adrenalina. Prima dello start sono completamente concentrato, penso solo a quello e alle cose da fare: la partenza, i cambi eccetera, mi rivedo tutto nella mente per fissarmelo bene in testa. Poi scatta la corsa ed è come togliersi un peso dallo stomaco: mi focalizzo sui tempi, sugli incitamenti del c.t., in un super mix di concentrazione e divertimento».
I velodromi sono il tuo primo amore rispetto alla strada?
«No, metto le due discipline esattamente sullo stesso livello. Nella mia carriera cercherò di portarle avanti ai livelli più alti possibile. Penso sia fattibile, anche grazie agli ottimi esempi che ho davanti agli occhi, come Ganna, Consonni e Viviani. Finché si trovano i giusti ambienti e stimoli sia su pista che su strada, e stai bene con gli amici e con lo staff, sia in Nazionale che nel club, il connubio riesce facile e non ti pesa».
Ci colpisce che non hai detto “compagni” ma “amici”.
«Ho un bel rapporto sia coi compagni di Nazionale che con quelli della Bahrain Victorious. Chiaramente capita di correre più spesso con alcuni: nel mio caso Mohoric, Caruso, Maciejuk, Haussler e Bilbao. Ma ho legato davvero bene con tutti».
Sul team bahreinita torniamo dopo, ora restiamo un attimo... in pista: rispetto a quando veniva considerata più che altro “collaterale” alla strada, ora questa branca del ciclismo sta assumendo sempre più rilevanza e “indipendenza”.
«Guarda, faccio pista da quando sono junior (quindi dal 2017-18, ndr) e in effetti andavamo a fare qualche gara in velodromo senza allenamenti specifici: quelle corse erano praticamente un divertissement per allenare lo spunto veloce su strada. Io però penso che a sua volta la strada possa essere di supporto alla pista, dato che ti aiuta a far crescere la condizione. Sono convinto che una disciplina aiuti l’altra, senza che ce ne sia una più importante: se le sai portare avanti insieme vengono fuori belle cose, e lo stiamo vedendo. Non solo con me, ma coi sempre più numerosi uomini e donne che le praticano entrambe ad alti livelli.»
E come le hai conciliate in queste prime due annate da professionista?
«Nel 2021 ci siamo detti di puntare a iniziare bene su strada con le corse di apertura e le classiche belghe. Poi, per arrivare ai Giochi di Tokyo nel miglior stato di forma, ho incrociato i due cammini facendo un’alternanza. Nel 2022 ho voluto dare un po’ più spazio alla strada: prima dell’UAE Tour ho fatto il Saudi, quindi la Milano-Sanremo e qualche gara in Belgio. Purtroppo però un problema all’addome mi ha tenuto fermo tre mesi e non è stato semplice riorganizzare il calendario».
Un calendario che ti ha trascinato alle prime vittorie su strada...
«Sono andato alla CroRace ben consapevole che, dopo esserci andato molto vicino in Polonia e Germania, quella era l’ultima opportunità per conquistare il primo successo su strada da prof. Le caratteristiche della corsa erano ideali per me, la squadra per aiutarmi c’era, ho dato tutto me stesso e, complice un team impressionante, abbiamo controllato le tappe: io ho vinto le due volate iniziali e nei giorni successivi Matej Mohoric (trionfatore alla Sanremo sei mesi prima) ha completato l’opera vincendo la classifica generale».
Quali sono i tuoi programmi adesso?
«In primis una vacanza a Malta coi miei amici: al termine di una stagione non lunghissima ma intensissima sul finale, c’è bisogno di staccare la spina. Poi un mese per riprendere con calma tra palestra e bici, fino al ritiro di dicembre in Spagna. Andremo di nuovo ad Altea, un posto tranquillo con tante belle salite... purtroppo (aggiunge ridendo, da buon velocista, ndr)».
Pronto al tuo terzo anno in Bahrain Victorious.
«Sì, e non cadete in alcune dicerie che ho letto da qualche parte, secondo le quali questo era il mio ultimo anno di contratto! Sarò qui pure nel 2023 e mi trovo molto bene: c’è comunione di intenti e siamo intenzionati a puntare sempre più sulle classiche».
Difatti sappiamo che la tua gara dei sogni è la Parigi-Roubaix. Non ti piacerebbe misurarti anche con un grande giro?
«Altroché! Ne ho già parlato con la squadra: sempre che non succedano mille cose come quest’anno, condividiamo pure l’idea di una corsa a tappe di tre settimane».
Del futuro abbiamo parlato abbastanza, ora rivolgiamoci al passato e a cosa ti ha portato fino a qui. Premessa: sei nato a Tolmezzo ma sei di Buja, direi che una domanda su Alessandro De Marchi è di rito...
«Da piccolo lo vedevo correre e ora ci ho fatto qualche gara insieme, è un fantastico punto di riferimento. Quando in paese seguivamo le corse, ok i grandi nomi ma principalmente tifavamo per lui. Adesso quelle poche volte che le nostre date coincidono, usciamo in bici insieme».
Ci puoi raccontare la tua love story col ciclismo?
«Ho iniziato a pedalare che non avevo ancora compiuto 5 anni. Papà Flavio, che era stato pure professionista in Amore&Vita dopo svariate stagioni da dilettante, correva ormai in categorie amatoriali e mia mamma mi portava a vederlo. Lei non voleva che io mi impuntassi a seguire per forza le orme paterne, ma non ne volevo sapere: “Magari contemporaneamente faccio altro, intanto faccio ciclismo”, ero piccolo ma le idee erano già chiarissime. Parallelamente infatti ho praticato tennis, arti marziali, nuoto, sci... ho fatto allenamenti di tutto e di più ma, senza nulla togliere alle altre discipline, il ciclismo mi regalava quel brivido in più: solo in sella a una bici provavo quel senso di libertà. E siccome ero uno che, quando si giocava al parco con gli altri bambini, se c’era una pozzanghera ci si buttava apposta perché adoravo sporcarmi nel fango, ho iniziato con la mountain bike. Era il 2005, mio padre e il suo amico Marco Zontone fondarono il Bike Team Jam’s: il nome è composto dalle iniziali dei loro figli, Jonathan (io), Asia (figlia di Zontone) e mio fratello Matteo. Una squadra nata letteralmente con noi: dapprima ci correvamo insieme ad alcuni compagni di scuola, poi in pochi anni si è espansa fino a raccogliere 50 bambini. Ha sempre e solo avuto settori MTB e ciclocross ed esiste tuttora. Alla Jam’s io ho fatto tutta la trafila Giovanissimi ed Esordienti, solo da Allievo sono passato alla strada: primo anno con la Ciclistica Bujese e secondo con la Ciclistica Sacilese, dove sono rimasto pure per il biennio juniores. Fino al passaggio al Cycling Team Friuli da Under 23 nel 2019 e quello da professionista nel 2021 in Bahrain Victorious. Il ciclismo fa parte del mio dna, durante la mia crescita ho pensato a qualche piano B eventuale, ma in testa ho avuto solamente questo sport: ho il privilegio di poter fare nella vita esattamente quello che volevo.»
La fortuna è trovare persone che ti supportano e influenzano positivamente...
«Assolutamente, a partire dalla mia famiglia che, come avete visto, è stata importantissima. Dopodiché bisogna trovare non solo chi crede in te, ma qualcuno che ti faccia appassionare a ciò che fai. Fortunatamente sono sempre andato in squadre in cui preparatori e direttori sportivi ci mettevano anima e cuore e non facevano quel lavoro per il risultato: la loro soddisfazione è quella di trasmettere la passione e far capire le cose giuste ai loro corridori. Diesse come Ivano Rosso e Stefano Lessi, Andrea Fusaz e Renzo Boscolo mi hanno permesso di mantenere questa filosofia nella quale credo fermamente. Specie da Giovanissimi, Esordienti e Allievi i ragazzi devono divertirsi e non pensare a dover vincere per forza, poi se riescono a farlo benissimo, ma non è la priorità. E devono conciliare lo sport con la scuola, che non va mai messa in secondo piano. Poi è normale che salendo di categoria e avvicinandosi l’età adulta e il salto da Elite o professionisti, l’ottica inizia a cambiare e si inizi a chiedere qualcosa in più. Ma anche a Bahrain e Nazionale vedo gente che lavora con amore per questo sport. E questa è la chiave di tutto: se ci sono cuore e passione, allora si riesce a trasmettere tutto efficacemente».
È un bell’argomento, che emerge spesso quando si parla della crescita di voi talenti. Ti sembra che ormai si trattino i giovani troppo “da professionisti” col rischio di nauseare anche potenziali campioni e indurre i ragazzi a smettere anzitempo?
«Di realtà che non ho vissuto non posso parlare. Sicuramente, così come nella vita, se una corda si tira troppo finisce per spezzarsi. Secondo me il ciclismo dev’essere una valvola non di sfogo, bensì di svago. È importante capire che c’è un limite psicofisico a cui non ci si deve nemmeno avvicinare: i giovani corridori devono essere messi nelle condizioni innanzitutto di divertirsi. Poi se qualcuno ha la capacità di approdare al professionismo bene, ma tutti i ragazzi dovrebbero correre ricordandosi che il ciclismo non dev’essere tutto nella vita. Io sono cresciuto con la passione che vi dicevo prima, ma tenendo bene in mente anche questa verità».
Una mentalità che certo non ti ha impedito di mettere a frutto il tuo talento, e anzi ti porta a farlo col massimo entusiasmo: un bel messaggio a chi ha il compito di tirar su le nuove leve. Chiudiamo con una battuta su tuo fratello Matteo: corre nel team Friuli e a gennaio compirà 20 anni, cosa ci dici di lui?
«Bel corridore, ha vinto qualche gara ma ancora deve completare lo sviluppo fisico quindi ha tanto margine di miglioramento. Sono sicuro che coi preparatori che ha è in buone mani. Ha caratteristiche un po’ diverse dalle mie: lo spunto veloce non gli manca, ma è un passistone che tiene discretamente in salita, quindi può diventare un uomo da classiche».