Bagioli: «Remco fenomeno, io sto crescendo»

di Giulia De Maio

Continua a splendere l’arcobaleno sul Wolfpack. Dopo Julian Alaphilippe è Remco Evenepoel a vestire la ma­glia iridata e al suo fianco an­che la prossima stagione avrà il “nostro” Andrea Bagioli. Il 23enne valtellinese, terzo poche settimane fa al Gp Montreal alle spalle di Tadej Pogacar e Wout van Aert, al mondiale di Wollon­gong in cui era una delle punte desi­gna­te della Nazionale di Daniele Bennati ha vissuto una giornata no (al tra­guardo 46° a 3’01” dal vincitore, ndr), ma è pronto a riscattarsi in questo finale di stagione. In particolare a Il Lombardia, la corsa che nel 2020 ha rischiato di compromettere la carriera del fenomeno belga ora in cima al mondo e che quest’anno presenta un percorso che ben si adatta all’azzurro della Quick-Step Alpha Vinyl.
Cosa ti resta della trasferta australiana?
«Un po’ di amaro in bocca perché sono stato al di sotto delle aspettative. Dopo il piazzamento in Canada mi attendevo di avere gambe migliori invece ho sofferto tanto, soprattutto all’ultimo giro. Ho faticato ad assimilare il fuso orario: dal Canada sono rientrato in Italia per poi volare in Australia, ma ho avuto una decina di giorni per abituarmi alle 8 ore di differenza con il nostro Paese e non posso dare la colpa a quello. Semplicemente ho avuto una giornata storta. A mio avviso, la Nazionale italiana si è ben comportata. A saper prima che il numero di Evenepoel sarebbe riuscito uno tra me, Bettiol e Trentin avrebbe seguito Remco, ma a posteriori è tutto più facile e questi ragionamenti ormai la­sciano il tempo che trovano. Gi­rano un po’ le scatole per la medaglia sfuggita a Lorenzo Rota nel finale, ma si vince e si perde per attimi e in una prova secca e complessa come il mondiale è difficile prevedere come andranno le cose».
Il CT Bennati è da promuovere?
«A me è piaciuto. Ragiona ancora co­me un corridore, avendo smesso solo da tre anni sembra uno di noi, è uno di noi, fa parte del gruppo. In gara senza radioline i tecnici non possono esprimersi appieno, ma purtroppo le regole al momento sono queste. Io personalmente le cambierei: non ha senso vietarle ad Europei e Mondiali, quando in tutte le altre competizioni dell’anno le usiamo. La domenica che ha incoronato Remco, per esempio, è stata un gran casino. Ad un certo punto nessuno sa­peva più quanti corridori erano in avan­scoperta, ne riprendevamo 10 alla volta, non si capiva quanti ne erano rimasti davanti, tanto che sia Laporte (alla fine d’argento) che Van Aert (4°) hanno dichiarato che non pensavano di sprintare per il podio».
Indossare la maglia azzurra è...
«Un’emozione, un piacere e una re­sponsabilità. Sai che hai una Nazione che ti guarda e senti l’orgoglio di rappresentare il tuo Paese. Oltre a un cam­pionato continentale, da Imo­la2020 ho disputato tre mondiali consecutivi tra i grandi e ogni volta è stata un’esperienza importante e indimenticabile. Da questa sono tornato a casa con la convinzione di far parte di un bel gruppo. Nei giorni trascorsi dall’altra parte del mondo si è creata una forte amicizia tra noi corridori, con Battistella e Bettiol che tenevano alto l’umore della truppa con le loro battute, e Trentin che con la sua esperienza sia prima che durante le gara è stato un punto di riferimento imprescindibile».
Ti aspettavi che vincesse Remco?
«Sinceramente no. Sapevo che il Belgio aveva quelle due carte e immaginavo che lui avrebbe provato ad anticipare, però non pensavo che arrivasse fino alla fine tutto solo. Il giorno dopo l’impresa l’ho incontrato in aeroporto con Serry e altri compagni di club, abbiamo scambiato due chiacchiere, ovviamente gli ho rinnovato i complimenti che già gli avevo inviato sulla chat whatsapp della squadra (si chiama The Wolf­pack, il branco di lupi, ndr). Sembrava tranquillo e giustamente felice. Non sarà facile per lui gestire tutta l’attenzione che lo attende, come Vingegaard dopo il successo al Tour de France, ma a differenza di Jonas lui è già abituato a stare al centro dell’attenzione».
In effetti da quando pedala viene paragonato ad Eddy Merckx.
«Sì, in Belgio il ciclismo è religione. Ho visto come è stato accolto al rientro a casa e letto che domenica 2 ottobre sarà osannato nella piazza del Mercato di Bruxelles da almeno 10.000 persone. Già quando aveva vinto da junior la maglia iridata ricordo che le tv e i giornalisti erano andati fuori dalla scuola della fidanzata (Oumaima Rayane che Remco sposerà venerdì 7 ottobre, ndr) per intervistarla, quindi lui e i suoi cari sono già allenati anche alla pressione mediatica. Aumenterà ulteriormente, ma sono pronto a scommettere che riuscirà a reggerla tranquillamente. Ha grande testa, riesce a restare concentrato sui suoi obiettivi e fa parte di una squadra che sa come trattare un campione del mondo».
Cos’ha in più degli altri?
«Beh, il motore (sorride, ndr). Quello già ti facilita la vita. Se sai che hai le doti per realizzare azioni che la maggior parte del gruppo si sogna, tutto è più semplice. In più è molto convinto dei suoi mezzi. A me ha fatto effetto quando, appena arrivato in squadra, ho visto come si comportava. Si vedeva che proveniva dal calcio. Ha avuto fin da subito le idee chiare e non ha mai fatto nulla per nasconderlo, anche di fronte a compagni più esperti. Visto che vince e come vince, ha ragione lui. Anche in quel famoso Lombardia di­sputato il giorno di Ferragosto 2020 mi aveva lasciato a bocca aperta perché nel­la riunione pre corsa ci aveva detto che avrebbe attaccato, dimostrando di sapere esattamente come muoversi in gara e di non avere alcun timore reverenziale verso i big che già avevano vinto in passato la classica delle foglie morte. Da un giovane non ti aspetti tutta questa sicurezza».
Vederlo vincere così “facilmente” è deprimente o esaltante?
«Deprimente assolutamente no. Anche quando corriamo da avversari perché ognuno rappresenta la propria Na­zione, nei suoi confronti ho rispetto e stima, non provo invidia o cattiveria. Come per tutti gli altri campioni con cui ho il piacere di confrontarmi. Ma­ga­ri non mi esalto come un tifoso da­vanti alla tv, ma persino l’agonista più combattivo deve ammettere che quel giorno a Wollongong è stato il più for­te e quello che si è trovato nella situazione migliore per esprimere tutto il suo potenziale. E se da fuori sembra che abbia vinto facilmente vi assicuro che non lo è stato, se l’è dovuta sudare e se l’è strameritata. Tutti sapevamo che ci avrebbe provato a 4-5 giri dalla fine ma in pochi lo hanno seguito e nessuno è riuscito a resistergli».
Quest’anno è stato in grado di vincere anche la Vuelta. Il tuo debutto al Tour è stato più complicato.
«Nel 2022 Remco ha vinto la Liegi-Bastogne-Liegi, la Clasica San Seba­stian, la maglia rossa e quella iridata. Non possiamo che toglierci il cappello per i risultati che è riuscito a ottenere in così poco tempo dall’infortunio ri­me­diato nell’estate 2020. Io alla Grande Boucle purtroppo non ero al top, quindi ho faticato tanto. Nel corso della prima settimana non sono stato bene, ho sofferto per problemi di stomaco e, non riuscendo a mangiare, è stata una vera sofferenza. Peccato perché non avendo in squadra un leader designato per le tappe collinari come Alaphilippe avrei potuto ritagliarmi il mio spazio, ma in quelle condizioni c’è stato poco da fare. Durante la tappa partita da Lo­sanna volevo addirittura fermarmi, eravamo partiti a tutta e io mi sentivo uno straccio, ma dall’ammiraglia mi hanno convinto a non mollare. Il giorno dopo c’era in programma il riposo, che per me è stato quanto mai prezioso. Pas­sato il malessere mi è rimasta la stanchezza. La condizione non è mai stata delle migliori, ma la soddisfazione di arrivare sui Campi Elisi è indicibile. Portare a termine un grande giro dicono che cambi il motore di un corridore, spero tutta la fatica accumulata verrà ripagata nei prossimi anni. Non sono un campione nato pronto come Remco e gli altri fenomeni che stanno caratterizzando quest’era del ciclismo, ma continuo a lavorare fiducioso nel mio piccolo di potermi togliere qualche bella soddisfazione».
Quanto è diverso Remco da chi lo ha preceduto?
«Parecchio. Sia Evenepoel che Ala­philippe sono due talenti cristallini, ma il primo è molto più serio mentre Lou­lou è decisamente più “sciallo”. Con Remco ho corso solo qualche gara nel 2020 al mio primo anno nella massima categoria mentre nelle ultime due stagioni ci siamo trovati solo in ritiro. Ri­cordo i training camp a Calpe, in Spa­gna, a inizio preparazione, in cui Rem­co è il primo a cercare e lanciare la sfida in allenamento. Il primo a rispondergli di solito è proprio Julian, nelle garette che imbastiamo tra di noi sono i più agguerriti. Non si assomigliano caratterialmente né come tipo di atle­ta, ma ognuno a suo modo è un fior di campione».
Meglio averli in squadra che contro.
«Eh, già. Correre nello stesso team del campione del mondo è una responsabilità in più perché vuol dire avere gli occhi puntati sulla squadra, dover correre davanti e fare la corsa. Siamo abituati e siamo felici di avere questo “pe­so” per altri 365 giorni. Remco non lo troverò più in gara in questa stagione, mentre Julian sì. Il mio calendario prevede la Coppa Bernocchi, a quattro giorni dal lunghissimo viaggio di rientro dall’Australia, e Il Lombardia. Se la gamba sarà come quella che avevo a Montreal sono molto fiducioso, speriamo. Il percorso dell’ultima classica mo­numento della stagione ha subìto delle modifiche ed è ancora più adatto a me. Mi piace questa versione senza il Muro di Sormano, con due scalate a San Fer­mo e il Civiglio, salite più brevi ed esplosive. Nei prossimi giorni andrò a provare il nuovo percorso con Julian, chissà che il Wolfpack riesca a re­galarsi un’altra giornata memorabile».
At­tenzione, gli avversari so­no avvisati. Il lupo perde il pelo ma non il vizio.

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